Scrivo perché non so parlare, suonare e nemmeno leggere con attenzione. Scrivo perché è l'unica cosa che so fare, altrimenti non farei nulla. Non so nemmeno leggere l'orologio, perdo davvero tanto tempo a provarci. Tutte le volte la lancetta va avanti e io non so starle dietro. Per stare al passo con i tempi, per partecipare attivamente a questo grande gioco contemporaneo, ho deciso di analizzare le cose con l'unico strumento a me congeniale: la scrittura, il salvagente nel mare delle cose.
sabato 31 ottobre 2015
Benvenuti esecutori
Sfumano nel cielo i colori che non so mettermi addosso. Pensare di poter stare in questo luogo senza distruggermi è stata una bugia che mi sono raccontata per troppo tempo. Quando parlo di vita so che non sto parlando della vita, quella che si vive perché, altrimenti, non avrei bisogno di parlarne. Quale sarebbe la strada? Quali sono i cieli? Dove sono le mani? Gli alberi, non respirano più, hanno deciso di far respirare gli altri e non respirano più. Questa continua ricerca del no, del quasi, dell'oppure ha tolto la luce al lampione. Se nel mondo ci fosse, per ogni lampione una luce sicura e calda non dovremmo più preoccuparci di niente. Basterebbe anche solo questa piccola e nascosta sicurezza. Di uscire di casa e avere una luce assicurata. Se nel mondo ci fossero abbastanza cappelli per tutte le teste allora non dovremmo più preoccuparci di riscaldare le idee. Quando parlo di vita so che non sto parlando di vita, quella che si vive. Se su ogni citofono del mondo ci fosse almeno un etichetta con su scritto il mio nome allora non mi sentirei così distante da tutto. Mi affanno per stare in un posto in cui gli alberi hanno smesso di respirare e vorrei non doverlo fare. Non ho scelta. Sono destinata a parlare di vita per farla respire agli altri, proprio come fanno questi maledetti alberi. Do agli altri quello che io non posso avere più. Il lampione, la luce, il cappello, il citofono.
mercoledì 28 ottobre 2015
Dicesi consapevolezza
Io
di vita dentro ne ho sentita una volta ed ho capito una cosa.
Le
persone che incontri riempono la scatola di cose che in verità già
possiedi. Questo lo sapevo già, ma quello che ho capito al tempo è
che siamo dei pesaculo. Lasciare agli altri il compito di buttare
dentro tutto il necessario è solo un modo per non farlo da soli, per
non avere coraggio, per lasciarsi fare la vita. Ci si presenta come
una scatola vuota giusto per il gusto di dare all'altro la
possibilità di sentirsi importante, di dirgli "mi completi".
Io la vita me la sono sentita addosso quando ho semplicemente deciso
di lasciare la mia scatola mezza vuota. Dentro c'erano i miei
obiettivi, il mio amore per Rachele, l'affetto per mia madre e
soprattutto il mio diario pieno di parole e parolacce. Non c'era
niente di altri, niente che qualcun altro aveva provato a metterci
dentro. Forse l'unica cosa che potrebbe essere stata di un altro è l'amore
per Rachele. Ricordo che una volta mi era capitato sotto mano un
libro di un mio amico che faceva lettere all'università. C'erano
dentro tante cose scritte sull'amore, Platone, Petrarca, e
soprattutto Ficino. Quello che mi sono costretto a capire e che probabilmente non è il vero senso del testo è che l'amore è morte e doppia vita, l'anima che muore
nell'amante migra nell'amato che ricambiando il sentimento le da
nuova vita. Insomma una gran bella teoria che spiegava il perché del dolore che è anche piacere, del fuoco che è anche ghiaccio e
della vita che quindi è anche morte. Allora se devo pensare alla mia
scatola, forse Rachele qualcosa ci ha messo dentro.
Apparte
lei, per il resto era tutta roba mia. Lì, dentro le mura della mia
testa riempita a metà mi sentivo felice, sentivo di avere in mano la
mia vita, di poter gestire tutto perché tutto quello che avevo ero
io. Poi, dentro ci sono finite il mio squallido lavoro, l'assenza di Rachele, la malattia
di mia madre e le mie parole che ormai erano
solo parolacce ed ho sentito di non poter far niente. Insomma, nel
momento in cui ho cercato negli altri un po' di me, mi sono perso e
ho perso tutto. Questo viaggio per me è un po' un voler svuotare la
scatola di tutto quelle cose che altri hanno cercato di mettere
dentro. Lasciare solo me, i miei sentimenti, le mie parole e buttare
quelli degli altri. Sembra un desiderio di un burbero egoista che si
chiude nella sua solitudine, ma io ho semplicemente deciso di vedere
questa scatola, che è la vita, mezza piena.
martedì 27 ottobre 2015
A metà strada
Scriverò per te lettere al profumo di niente
e avranno tutte la stessa lunghezza e lo stesso finale.
Scriverò ogni giorno qualcosa che non vorrà significare e nemmeno essere.
Te le manderò ogni giorno alla stessa ora e tu mi risponderai.
Non ci saranno parole piene, non ci saranno momenti cruciali, non ci sarà mai una morale.
Scriveremo per tutta la vita una storia che non dovrà essere vissuta, che non potrà trovare il suo significato in nessuna cosa del mondo.
Tutte le volte che aprirai la busta penserai che quella sarà la volta buona, la volta in cui ti dirò che ci sono e ci sono per te.
Leggerai con calma aspettando il momento in cui io mi rivelerò a te.
Saprai che in un luogo a te sconosciuto si starà svolgendo un evento incredibile.
Io starò scrivendo la storia di un amore che non vorrà, e non saprà, avere il sapore dell'amore.
Un testo senza occhi, parole senza pancia.
Scriverò per te fiumi di sbagli, manciate di promesse e nessuna di queste vorranno dire "perché?".
Mi risponderai da un luogo a me sconosciuto righe di tristezza, virgole di delusione e nessun punto avrà per me la forma di una fine.
Per la vita sarai la mia penna e per un'altra vita ancora io sarò la tua carta e tutto questo non vorrà significare altro che quello che è.
Un inesistente qualcosa che non si costringe ad essere.
Scriverò per te lettere al profumo di niente.
venerdì 23 ottobre 2015
Un the caldo in piazza
Una volta un uomo mi disse di cercarmi
altrove.
Aveva gli occhi indaffarati, occhi di
chi sa già tutto e a quel tutto è sopravvissuto.
Parlava
facendo quei viaggi che solo una persona che non ha mai messo piede
fuori da casa sua può fare. Sognava posti sconfinati, amori puri,
persone oneste. Ma i suoi non avevano la sembianza dei sogni,
piuttosto di realtà plasmate, costruite. Nemmeno inventate.
Le
sue parole avevano dei confini, dei limiti.
Potevano
andare avanti ma non sbiadivano mai.
In
pratica, i confini dei suoi luoghi erano circoscritti ma mai
invalicabili. Si aveva l'impressione di poter andare molto oltre le
cose che diceva ma per rispetto, e per stregoneria, si restava lì
fermi insieme a lui, davanti al recinto.
Pochi
su, questa terra, hanno questo dono. Di farti restare anche se hai la
possibilità di andare. Quell'uomo disegnava con occhi e parole un
mondo dal quale nessuno sarebbe mai potuto scappare. E, intendiamoci,
non parlava di certo di nuvole e acqua pulita. Parlava del marcio,
della nostalgia, dell'incapacità e della malattia. Ne parlava senza
fatica e rammarico. Senza quell'ansia di capire che hanno tutti gli
altri.
Mi
sono chiesta se effettivamente fosse esistito o se fosse stato
soltanto una proiezione di immagini che in quel momento avevo la
necessità di vedere. E ho capito che, in realtà, le persone che
incontriamo e che scegliamo di inserire nel nostro mondo non esistono
in quanto tali ma esclusivamente come proiezione, appunto, di quello
che vogliamo che esse siano.
Mi
disse di cercarmi altrove.
"Cercarmi
fuori da me?" domandai.
"Assolutamente
no." rispose.
"Ma
allora altrove rispetto a cosa?" gli chiesi.
"Altrove
rispetto all'immagine che di te creeranno gli altri,
fuori
dagli altri e mai fuori da te."
mercoledì 21 ottobre 2015
La mongolfiera
Farei per te tante cose.
Non posso mentirti.
Gli uomini si affannano continuamente a
inventare delle bugie accettabili.
Passano molto tempo a crearsi e si
dimenticano che quello che più conta è creare altro, fuori dalla
propria scatola.
Non posso, perciò, chiederti di
lasciarmelo fare.
Mentiresti nel dire sì, mentiresti e ti faresti male.
Mentiresti nel dire sì, mentiresti e ti faresti male.
E allora va così.
Leggo le cose del mondo con gli occhi
curiosi, pieni, affamati e posso farlo in questo modo esclusivamente
perché lo sto facendo per te. Perché non è vero, togliamocelo
tutti un po' dalla testa, che le cose migliori sono quelle che
soddisfano il proprio ego.
Se ti stai chiedendo se sono cosciente e razionale, beh ti rispondo "ovviamente si".
Ci ho pensato e sono arrivato alla conclusione che è solo in questo modo che possono andare le cose nel mio mondo. Soltanto se penso di correre mi sento continuamente rinnovato, rigenerato.
Per questo motivo ti assalgo, ti sfinisco. Perché tu te ne vada lontano. Per provare a raggiungerti.
Se ti stai chiedendo se sono cosciente e razionale, beh ti rispondo "ovviamente si".
Ci ho pensato e sono arrivato alla conclusione che è solo in questo modo che possono andare le cose nel mio mondo. Soltanto se penso di correre mi sento continuamente rinnovato, rigenerato.
Per questo motivo ti assalgo, ti sfinisco. Perché tu te ne vada lontano. Per provare a raggiungerti.
E fischia il vento, forte, arrogante,
nelle mie orecchie.
Vuol dire allora che mi sto muovendo e che tutto sta andando come ho progettato. Sto correndo, per te.
Vuol dire allora che mi sto muovendo e che tutto sta andando come ho progettato. Sto correndo, per te.
La cosa più incredibile è che non lo
saprai mai.
Penserai di avermi lasciato in un angolo con gli occhi vuoti, gli occhi di chi ti ha ascoltato e ha scelto di assecondarti. Gli occhi, quindi, di chi si è arreso ai tuo abissi. Penserai di avermi convinto che la vita è individualità, un gioco che non si può fare in squadra.
Penserai di avermi lasciato in un angolo con gli occhi vuoti, gli occhi di chi ti ha ascoltato e ha scelto di assecondarti. Gli occhi, quindi, di chi si è arreso ai tuo abissi. Penserai di avermi convinto che la vita è individualità, un gioco che non si può fare in squadra.
Un gioco, appunto.
Ma sono fortunato sai? Non mi è mai
piaciuto giocare. Non mi è nemmeno passato mai per la testa di
tirare i dadi e lasciare tutto al caso.
Si passa davvero tanto tempo davanti
allo specchio a rendersi presentabili. Per quale scopo? Per chi? Se
poi alla fine davanti a quello specchio si resta da soli, a cosa
serve vestirsi?
Lascio che tu creda di avermi messo
alle strette, di aver arrestato il mio moto.
Lascio che tu pensi a te stessa anche
questa volta.
L'egoismo fa vincere le partite il
pomeriggio alle 15 con il sole e l'aria fresca.
Io vinco Domenica
mattina, sotto la pioggia, con il fango e le scarpe slacciate.
Continuerò a guardare dentro la tua
scatola e ruberò, ogni giorno, un po' di te, senza dovertelo
chiedere, mai.
Farei per te tante cose.
martedì 20 ottobre 2015
Prospettive
Cecco,
vecchio matto. Quella volta che girò nudo per il paese fece parlare
tutte le malelingue. Eppure non era pazzo, per niente, anzi, la testa
ce l'aveva, sana, sulle spalle. Quel giorno però aveva guardato il
sole e non era riuscito ad amarlo. C'era questa leggenda, che quando
uno lasciava il sole per le nuvole, impazziva.
In
verità, Cecco, non era impazzito. La testa ce l'aveva, eccome.
L'unico
difetto: scriveva.
Era
da tanto che ormai si interrogava sulla verità, sulla finzione,
sulla verità trasformata in finzione. Soprattutto, sulla menzogna e
la capacità che le parole hanno di rendere vero qualcosa che non
esiste. Scriveva di creduloni che abboccano, di uomini che soffrono,
di parole che perdono di spessore.
Poi,
un giorno, nel suo giardino, davanti alla sua macchina da scrivere,
gli venne in mente un'idea geniale (poi... geniale. Un'idea semplice,
ma almeno, un'idea).
Come
avrebbe potuto parlare di pesci senza essere stato nell'acquario?
Allora prese amo e consapevolezza, e andò a cercarli questi
creduloni.
:
"Povero Cecco, è impazzito anche lui. Il sole non perdona."
:
"Che scandalo! Che pena che mi fa. Eppure lo dicevamo noi...
quello è sempre stato matto!"
Correva
Cecco, con la sua nudità arrogante, urlando : "Odio il sole!
Nuvole bianche, la vita, la sfida, la riga"
Mai
stato pazzo, forse, la persona più intelligente che quel paese
avesse mai potuto vantare.
Nel
suo giardino, ha continuato a scrivere storie meravigliose guardando
il sole e le nuvole. A volte nudo, a volte soltanto con le mutande ma sempre in compagnia del suo pesce rosso, Cecco il
matto.
lunedì 19 ottobre 2015
Ho comprato: una maglietta, un maglione, una giacca e un cappello
[..] Anche
quella ragazza che si destreggia sul palco in fondo alla strada non
fa che distrarmi dal mio obiettivo. Avevo sentito parlare di questa
nuova moda di motivare con libri motivatori persone che
ricercano un motivo, insomma, apparte il gioco di parole, Guru
improvvisati che scrivono libri autobiografici per convincere gli
altri che "si può esser felici".
A quanto pare Ebe, questo è il nome della "musa" di questo pseudo seminario improvvisato e arrancato in questa piazza, è una tra le più seguite e venerate motivatrici in questo momento. Nel suo libro racconta la sua storia parlando in terza persona, anche questa sembra essere una nuova moda, esponendo ciò che l'ha portata ad essere la donna forte che oggi, pare, sia diventata.
(Ritornare Ebe, pag 54)
"È una vita che lascia le schegge addosso. L'ha sempre pensato, ma adesso, ora che quelle schegge le sono entrate nella pelle, non sa come farle uscire fuori. Che poi, chi lo dice che bisogna liberarsene? Si sente quasi sollevata a questo pensiero, in qualche modo avrebbe fatto finta di non averle e se proprio qualcuno ci avesse fatto caso, avrebbe fatto finta di niente. Si sente parlare di rimedi, addirittura un curatore cinese dice di aver trovato un rimedio per eliminare tutte le tracce, per non farle tornare mai più. Continua a non capire il perché di questa necessità di eliminarle. Sono schegge di una vita che ha vissuto. C'è tanta di quella gente che ha il coraggio di andarsene in giro con le cravatte bicolore, capigliature a nido di uccello e foulard di naftalina. Eppure quel curatore con gli occhi a mandorla non ha trovato una cura alla banalità, anzi, a quanto pare dice proprio che non serve, che il grigio è normale, il viola livido no. Schegge indolore, non pungono, non prudono. Stanno li perché devono significare qualcosa, allora stanno lì. Si sentono storie di gente che ha provato a levarle e non è mai tornata indietro. Allora, chi glielo fa fare? Sembra addirittura fiera di averle. Sono schegge che sembrano medaglie, ogni ferita è un traguardo, ogni taglio una vittoria. Quasi come se quella del dolore fosse la partita più bella da giocare e come premio si ricevano proprio quei minuscoli simboli di battaglia. Dovreste vederla ora andare in giro con quelle sue cicatrici, bella orgogliosa. Sembra che il curatore abbia iniziato a cercare una cura per quell'altra malattia, quella delle cravatte bicolore, le capigliature a nido d'uccello e i foulard di naftalina. A quanto pare la normalità è diventata la scheggia. Chi l'avrebbe mai detto?". In effetti non è un argomento sbagliato da trattare, soprattutto se ad ascoltarti ci sono molte donne. Ma è davvero giusto convincere qualcuno ad essere fiero di mostrare le proprie cicatrici perché sono il risultato di un coraggioso atto di accettazione del dolore? E quelli che non lo accettano e fanno di tutto per eliminarne i segni, per non renderli visibili agli altri, dietro cravatte bicolore, sono davvero da ritenere così banali-normali e addirittura i nuovi malati? La verità è che non ho nessuna intenzione di chiederlo ad Ebe e poi, fondamentalmente, non mi interessa così tanto. Io a volte indosso una cravatta, altre volte scopro la ferita. Credo che ognuno sa quando è il momento di coprirsi e quando quello di spogliarsi.
A quanto pare Ebe, questo è il nome della "musa" di questo pseudo seminario improvvisato e arrancato in questa piazza, è una tra le più seguite e venerate motivatrici in questo momento. Nel suo libro racconta la sua storia parlando in terza persona, anche questa sembra essere una nuova moda, esponendo ciò che l'ha portata ad essere la donna forte che oggi, pare, sia diventata.
(Ritornare Ebe, pag 54)
"È una vita che lascia le schegge addosso. L'ha sempre pensato, ma adesso, ora che quelle schegge le sono entrate nella pelle, non sa come farle uscire fuori. Che poi, chi lo dice che bisogna liberarsene? Si sente quasi sollevata a questo pensiero, in qualche modo avrebbe fatto finta di non averle e se proprio qualcuno ci avesse fatto caso, avrebbe fatto finta di niente. Si sente parlare di rimedi, addirittura un curatore cinese dice di aver trovato un rimedio per eliminare tutte le tracce, per non farle tornare mai più. Continua a non capire il perché di questa necessità di eliminarle. Sono schegge di una vita che ha vissuto. C'è tanta di quella gente che ha il coraggio di andarsene in giro con le cravatte bicolore, capigliature a nido di uccello e foulard di naftalina. Eppure quel curatore con gli occhi a mandorla non ha trovato una cura alla banalità, anzi, a quanto pare dice proprio che non serve, che il grigio è normale, il viola livido no. Schegge indolore, non pungono, non prudono. Stanno li perché devono significare qualcosa, allora stanno lì. Si sentono storie di gente che ha provato a levarle e non è mai tornata indietro. Allora, chi glielo fa fare? Sembra addirittura fiera di averle. Sono schegge che sembrano medaglie, ogni ferita è un traguardo, ogni taglio una vittoria. Quasi come se quella del dolore fosse la partita più bella da giocare e come premio si ricevano proprio quei minuscoli simboli di battaglia. Dovreste vederla ora andare in giro con quelle sue cicatrici, bella orgogliosa. Sembra che il curatore abbia iniziato a cercare una cura per quell'altra malattia, quella delle cravatte bicolore, le capigliature a nido d'uccello e i foulard di naftalina. A quanto pare la normalità è diventata la scheggia. Chi l'avrebbe mai detto?". In effetti non è un argomento sbagliato da trattare, soprattutto se ad ascoltarti ci sono molte donne. Ma è davvero giusto convincere qualcuno ad essere fiero di mostrare le proprie cicatrici perché sono il risultato di un coraggioso atto di accettazione del dolore? E quelli che non lo accettano e fanno di tutto per eliminarne i segni, per non renderli visibili agli altri, dietro cravatte bicolore, sono davvero da ritenere così banali-normali e addirittura i nuovi malati? La verità è che non ho nessuna intenzione di chiederlo ad Ebe e poi, fondamentalmente, non mi interessa così tanto. Io a volte indosso una cravatta, altre volte scopro la ferita. Credo che ognuno sa quando è il momento di coprirsi e quando quello di spogliarsi.
domenica 18 ottobre 2015
Sta squillando un telefono
Scusami per averti fatto credere che esistevano le nuvole di zucchero a velo ma avevi bisogno di un motivo. Ti ho incontrata e avevi bisogno di qualcosa che ti rimettesse in moto. Allora io ho preso quelle quattro parole, facili, semplici e banali e te le ho spedite. Te le ho mandate ogni giorno, alla stessa ora, perché tu sapessi di non essere sola. Perché tu non ti spegnessi dinuovo. L'ho fatto perché anche io avevo bisogno di qualcosa che mi facesse muovere. E il tuo buio è stata la mia carica.
Quant'è triste Marghe che io e te ci siamo
usati in questo modo senza avere effettivamente la voglia di farlo. Io oggi ho sentito qualcuno che suonava il pianoforte e ha
incominciato a bruciarmi la gola. Mi sono ricordato delle lacrime e
del perché avevo deciso di chiuderle nel barattolo che ho nel
cassetto più alto dell'armadio. Non le devi sentire quelle persone,
quelle che ti diranno che è giusto abbandonarti perché ne vale la
pena. Non vale la pena partecipare, non per te. Tu vinci Margherita,
hai sempre vinto. Credi a me quando ti dico che le cose cambiano in
un attimo. Credimi perché io mi sono approfittato di te e soltanto
adesso mi rendo conto che è stato veramente troppo semplice. Allora ho
iniziato a pensare a tutti quelli che lo avrebbero fatto al posto
mio, tutti quelli che avrebbero usato quelle quattro parole per farti
respirare. Respireresti per chiunque, lo faresti per così poco.
Voglio dirti alcune cose, per l'ultima volta, perché so che ti
faranno bene, perché ti terranno accesa ancora per qualche minuto.
Come sei bella quando ridi Margherita. Sei bella, bella da svegliarsi la mattina e mettersi la felpa prima di uscire dal letto.
Come sei bella e nessuno te lo dice mai. È un peccato perché ogni volta che qualcuno non te lo dice tu pensi che non l'abbia notato. Allora ti togli la felpa e ti metti il reggiseno. Ed è un peccato.
Come è bella la tua mente Titì! Lascia per strada briciole.
E non è vero che nessuno la vuole, che l'impegno è fuori moda. Non è vero che devi accontentarti di organizzare le tue serate, che nessuno ti aspetterà con lo stomaco chiuso, che non ne vali la pena.
Sei così bella che verrebbe voglia di abbassare la serranda del negozio.
E non è vero che nessuno la vuole, che l'impegno è fuori moda. Non è vero che devi accontentarti di organizzare le tue serate, che nessuno ti aspetterà con lo stomaco chiuso, che non ne vali la pena.
Sei così bella che verrebbe voglia di abbassare la serranda del negozio.
Non è vero, ti prego di credermi, che nessuno cambierebbe per te. Per te non esistono paure, confini, proibizioni. Non fa niente se ci siamo abbandonati.
A cosa serve smettere di fantasticare? Qui è Domenica già da un po' e ci sono i tuoi desideri messi in ordine sul tavolino. Li ho catalogati in ordine di importanza e sto aspettando che vieni a prendertene qualcuno.
Non smettere Mimì, per favore. Gli uomini chiudono gli occhi per sperare. Tutti, tranne te.
Come sono belli i tuoi occhi Margherita. Come sei bella.
giovedì 15 ottobre 2015
Io scelgo picche, e tu? Fiori.
Sai essere prepotente e arrogante, come
le gambe quando si accavallano.
E mi chiedo, sarà mai possibile
scrollarsi di dosso le gambe?
Si può essere e allo stesso tempo
sembrare.
Si può credere di essere e poi
sembrare soltanto.
Si può, a volte, chiedere a qualcuno
di lasciarti essere.
Ed è una bugia, una stramaledetta
bugia che dici a te stessa per nascondere le gambe.
Non si può chiedere una cosa del
genere.
Quando si chiede non si è già più.
martedì 13 ottobre 2015
Condizionale
La guardavo continuamente e tutte le
volte pensavo che avrei voluto scrivere per lei una di quelle cose
immense che hanno già scritto tutti, gli altri, quelli bravi. Volevo
prendere tutte quelle parole e appiccicarmele sulla mano, sulla
penna. Non sarebbe stato un furto, un prestito, piuttosto, per una
giusta causa. Avrei usato Roth per dirle " Amo…
amo la tua mente. Amo il modo in cui metti in mostra la tua mente
quando parli" e lei avrebbe socchiuso le labbra e
improvvisamente avrebbe sorriso. Sapevo che non avrebbe mai potuto
scoprirmi, lei che un libro non lo aveva neanche mai comprato. Così
avrei potuto corteggiarla tutto il giorno, tutti i giorni, con frasi
ad effetto e diventare piano piano l'uomo che aveva sempre
desiderato. E si sarebbe sentita l'unica al mondo, amata come
nessun'altra e la mia sarebbe stata una bugia, un prestito per una
giusta causa. Una sera io e Buzzati le avremmo lasciato un biglietto
sotto la porta "Vorrei che tu venissi da me in una sera
d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la
solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle
favole, dove si visse insieme senza saperlo" e lei sarebbe corsa
da me, piena e viva.
Infondo
ho sempre pensato che è a questo che servono i libri, a riempire i
vuoti degli altri, quelli che non sanno chiamare le cose con il
proprio nome.
Era amore, lo so. La amavo immensamente, per me oltre al suo contorno non esisteva nient'altro. Il suo pensiero era il più bel libro che fosse mai stato scritto. Anzi, sarebbe stato il più bello se qualcuno fosse riuscito mai a scriverlo. Perché la sua storia, lei non lo avrebbe mai saputo, l'avrebbero scritta gli altri, quelli bravi, che di lei non sapevano nulla. E io per questo sarei stato male, malissimo. Ogni giorno avrei convissuto con il senso di colpa e mi sarei sentito un incapace. Non avrei saputo scrivere di lei e mi sarei appropriato delle parole degli altri. Quasi sicuramente non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo e la sua sarebbe stata la storia di un'altra donna. Sono certo però, che l'avrei amata, ogni giorno, tutti i giorni, con il mio cuore anche se la penna sarebbe stata di un altro.
Era amore, lo so. La amavo immensamente, per me oltre al suo contorno non esisteva nient'altro. Il suo pensiero era il più bel libro che fosse mai stato scritto. Anzi, sarebbe stato il più bello se qualcuno fosse riuscito mai a scriverlo. Perché la sua storia, lei non lo avrebbe mai saputo, l'avrebbero scritta gli altri, quelli bravi, che di lei non sapevano nulla. E io per questo sarei stato male, malissimo. Ogni giorno avrei convissuto con il senso di colpa e mi sarei sentito un incapace. Non avrei saputo scrivere di lei e mi sarei appropriato delle parole degli altri. Quasi sicuramente non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo e la sua sarebbe stata la storia di un'altra donna. Sono certo però, che l'avrei amata, ogni giorno, tutti i giorni, con il mio cuore anche se la penna sarebbe stata di un altro.
Rimedi alternativi
Metti
caso che tu mi incontrassi e mi volessi da subito. Sai, una di quelle
cose che ti fanno perdere la testa improvvisamente, quelle cose che
succedono sempre agli altri e mai a te. Però questa volta succede a
te e non sai come comportarti. Vieni da me e mi parli di futuro, del
tuo per il momento perché non puoi dirmi che vorresti che fosse il
nostro, non mi conosci, non sai nemmeno pronunciare il
mio cognome. Quindi ti trovi in una di quelle situazioni in cui
saresti capace di scalare l'Everest e invece sei seduto su un
montarozzo di rifiuti tossici a far finta di starci comodo e a
lasciare che io mi convinca che anche tu sei la persona con cui
voglio stare. Poi magari non lo faccio, magari piano piano diventi
una sagoma senza contorno omologata a tutto il resto, magari avrei
voluto che il primo giorno mi avessi chiesto di vivere insieme.
Magari queste cose non succedono mai e sono soltanto invenzioni di
persone che invece di vivere hanno scelto di scrivere. Forse è
questo che ti spinge a scrivere quel mucchio di robaccia che accumuli
a casa. Scrivi per non fare, per non essere coraggioso e poter far
finta di non aver mai provato ad esserlo. Tanto finché stanno lì,
le tue righe, nessuno le vedrà mai e se mai qualcuno dovesse
trovarle puoi sempre dire che erano di un altro, che non lo sai, che
non c'entri niente.
Tra il dire e il fare, tra lo scrivere e il fare, c'è di mezzo un montarozzo di rifiuti tossici.
Tra il dire e il fare, tra lo scrivere e il fare, c'è di mezzo un montarozzo di rifiuti tossici.
venerdì 9 ottobre 2015
Una tazza di latte
Un mese fa la mia ragazza mi ha lasciato lasciandomi il biglietto che le (Mulino) ho mandato come allegato.
Le (Mulino) scrivo perché vorrei essere risarcito. Io e Cecilia siamo stati insieme per 4 anni. Felici. Lei mi capiva. Poi ad un certo punto è cambiato qualcosa e io credo che sia stata colpa sua (Mulino). Mi sembra abbastanza chiaro da quello che scrive che la causa sono i suoi (Mulino) biscotti. Non credo di dover aggiungere altro.
Quindi, spero che lei (Mulino) capisca che è necessario un risarcimento immediato. Mi serve adesso. Sto male, piango, soffro e mangio gelato. Mi chiedevo, potrebbe (Mulino) mandarmi 100 pacchi di Pan di stelle, quelli di Natale?
Nell'attesta di una sua (Mulino) risposta,
la (Mulino) ringrazio per l'attenzione.
Cordiali Saluti,
Luigi.
Però mi hai convinto, tutto questo non
basta. Sai tutta quella storia su "siamo diversi, siamo tante
macchie che prendono tonalità diverse a seconda delle tele? Ma
se la tela è sempre bianca come fa una macchia ad essere diversa?
Dici che è la forma che fa la differenza? Del contenuto, per una
volta, freghiamocene. Per esempio, io nel pacco limited edition di
Natale di Pan di stelle cerco sempre il biscotto tondo, cioè quello
normale. Così dovrebbe essere no? Perché bisogna per forza cambiare
le regole? I Pan di stelle sono sempre stati tondi. Non è che io a
Natale divento albero, stella e campanella. Quindi, dicevo, mi hai
convinto, tutto questo non basta ma posso almeno restare tonda? E
poi, hai notato quanti punti di domanda sto usando per dire questa
cosa?
È abbastanza chiaro che non ho le idee
chiare. Ripeto le parole, i punti, le virgole e me la prendo con i
biscotti più buoni che esistano sulla faccia della terra. Questo non
te lo perdono. Cambia tutto, prenditi tutto, ma lasciami il mio
banale, scontato, e sempre uguale, pacco di biscotti Pan di stelle
tondi. Ci giro intorno e parlo di cose da mangiare per non parlare
della mia incapacità. Fingo di essere un cerchio e in verità sono un
quadrato. Fingo di amarti per come sei e in verità cambierei tutto,
qualsiasi cosa.
Allora a questo punto mi arrendo. La
palla che gira sopra la tua testa funziona come tutte le altre.
Niente di più e niente di meno. È inutile che mi ostino a pensare
che tu sia una macchia diversa.
È inutile.
Tanto so che tu, a Natale, frugherai
nella busta e, dopo averci pensato a lungo, sceglierai il biscotto a
forma di albero."
Fuori dal cassetto
Ecco.
Era questo che intendevo quando ti parlavo di coincidenze. Io ho
camminato tutto il tempo sul filo sospeso. Ho fatto avanti e indietro
per non fermarmi troppo dalla tua parte, per non darti la possibilità
di sentirti messo alle strette. Sono andata via per farti sentire la
mia mancanza, sono tornata per colmarla. Ma improvvisamente ho capito
che, nonostante l'aria sia nel mio segno zodiacale, dovevo cercare il
mare per terra. E l'ho trovato sai? E non faccio più avanti e
indietro. Ci sto dentro, sopra, in mezzo, sotto. Ecco, non so
spiegarti cosa intendevo quando ti parlavo di coincidenze, non
c'entra niente tutto questo con le coincidenze. Da quando non sto più
lassù lascio che a parlare sia la mia pancia ed è un po' di tempo
che fa confusione, non ragiona. Comunque lascia stare, tira dentro il
filo amore, non torno più. So che mi perdonerai.
giovedì 8 ottobre 2015
Librare: 2. Equilibrare (letter.); più com. il rifl. librarsi, equilibrarsi, tenersi in equilibrio: la danzatrice si librò sulle punte dei piedi
Va' e dimenticati di me. Dimentica il pane tostato la mattina, quello che ti preparavo sempre perché avevo paura che non mangiassi che la ragazza del bar sotto casa nostra lo facesse meglio di me. Portati via lo zaino da campeggio che ti aveva regalato tuo fratello che ho sempre odiato che ho sempre voluto. Lasciami il foulard di mia madre che avevi appeso alla lampada per rendere la luce calda, troppo calda. Allacciati la camicia, fuori fa freddo e ancora non desidero che tu ti ammali, ancora ho bisogno di sapere che stai bene e che ci sarai ancora che ancora tossirai per le sigarette che ancora toglierai la povere con il dito dal davanzale della finestra. Va' e dimenticati di me. Dimentica la strada secondaria per arrivare a casa, quella che facevi quando volevi correre da me, quella che nessuno ha mai saputo. Lasciami le chiavi della casa al mare per ripulirla dal nostro odore. Promettimi che suderai ancora, ancora e ancora che ti affannerai e vivrai di niente perché quel tutto che hanno gli altri ti farà ancora schifo come ti faceva schifo quando lo raccontavi a me. Va' e dimentica la lana, le conchiglie e gli occhiali. Prendi il mio borsellino di cuoio, dentro dovrebbero esserci ancora i tuoi dadi. Giura che in qualsiasi città andrai avrai voglia di viverci almeno per due mesi che le strade ti sembreranno ancora troppo lunghe e i confini ancora molto lontani. Promettimi che anche se te ne andrai e nonostante io te lo lascerò fare non penserai che tutto non sia servito a niente. Va' e dimenticati di me.
mercoledì 7 ottobre 2015
18:15
Avvistata al parco.
Ragazza sulla ventina, camicetta a righe e una bolla di sapone intorno.Non scherzo, non vi illudo.
Sta proprio dentro una bolla di sapone.
Perché nessuno le va a chiedere se ha bisogno di qualcosa?
Certo, potrei farlo io ma c'è qualcosa in quella ragazza che mi preoccupa.
Carina, molto, sia chiaro.
Bella come lo zucchero a velo sulla torta al cioccolato e pere che fa mia madre.
Bella sì, ma spaventosa.
Sarà per la bolla, non so, fatto sta che non riesco ad avvicinarmi.
Si sa, le bolle scoppiano in un lampo. Un attimo e tutto quello che sto immaginando di lei scomparirebbe.
Però fantastico.
Immagino la sua voce calda e le sue mani fini ed eleganti.
Francesca.
Una vita vissuta come si deve, come lei ha sempre voluto viverla.
Scoperta, nuda, arrogante.
Il cambio di stagione negli scatoloni.
Gli scatoloni a casa mia.
Lo spazzolino a casa di Luca, il suo amico, suo fratello.
Una volta a settimana nel mio letto, due volte nel suo.
Un giorno in macchina e l'altro al mare, con il maglione.
Poi impegni lavorativi, la macchina dal meccanico, il computer sempre acceso.
Un Natale a Napoli e uno a via degli Appennini.
Pasqua da Luca e l'estate da me, in camera con il ventilatore.
Le torte di mia madre per il suo compleanno.
Il capo che la importuna e io che viaggio troppo.
Poi una sera, in un vicolo di Firenze, una promessa e una speranza.
Gli occhi belli, il seno pure.
Bella senza una parola.
Forse è per questo motivo che non mi avvicino.
Parlarle e sentirla distante mi priverebbe della speranza, di quella promessa, di quelle cose che, si sa, quando si provano a spiegare finiscono sempre per significare qualcos'altro.
Nella mia testa Francesca sa già tutto e per questo motivo se ne sta nella sua bolla di sapone.
Fa in modo che nessuno le si avvicini fino a quando non lo farò io.
E scoppierà. E sboccerà. E...
Parigi '13
Mangia
le pellicine intorno alle unghie con forza e voracità. Le strappa,
le sputa. I fogli, la penna, scivola veloce, le parole sono
proiettili sparati a gran velocità. Avrà un tic oppure è soltanto
nervosa. La vita le sta scivolando addosso dalla testa fino ai piedi.
Sente la sua vita passarle dentro come un brivido improvviso."I
desideri sono già ricordi" penserà. Passa il tempo tic, il
tempo tac. "Non ho tempo. Eppure prima la mano si fermava, prima non
ero così agitata. Le mie unghie che fine hanno fatto?". Scrive veloce,
sono proiettili velocissimi quelle sue parole,si vede da qui, da
lontano,da tempo. "Lo dicevo io che dovevo smetterla di
scrivere, che dovevo pensare a viverla questa vita che mi sta
scivolando addosso "penserà "scrivere è essere qui"
e invece adesso la sta portando da un'altra parte. "Com'è bello
fingere che questa pistola che è la mia mente possa sparare realtà.
I miei proiettili fanno più male a me, questo fumo che esce dalla
canna mi fa pensare che questo mondo che ho creato è una finzione". ("Forse voglio dire che la letteratura fantastica non crede nella
realtà? oh se ci crede, ma crede che la realtà sia appunto lei, la
letteratura. E come si fa a persuaderla del contrario?" G. Manganelli).
Esce fuori con uno scatto fulmineo, forse le manca l'aria o forse ha
bisogno di mangiare la neve del mondo. Così, sta lì, immobile sotto
il cielo che vomita il suo tempo più dolce, il bianco dell'acqua
gelata, il tempo di una città che non vuole contenersi. Anche lei
non lo vuole. Vorrebbe che i suoi scatti fossero roba da tutti, che
le sue manie fossero comuni. "Le mie parole come neve bianca
della purezza reale, come realtà, impossibile. Come ho potuto pensare
che l'inchiostro fosse tutto quello che possedevo?". Penserà
che vorrebbe vivere del suo scrivere, nel suo scrivere, vivere quello
che ogni giorno desidera scrivendo. Mangia le pellicine intorno alle
unghie con la voracità di chi ha capito qualcosa di spaventoso.
Fuori la neve ricorda al mondo che niente è come sembra. Scrive
"sole" sapendo che questo sarà un altro dei suoi
proiettili che le faranno male, sapendo che quella pistola potrà
colpire soltanto lei. Penserà "anche oggi non vissuto. Ancora,
oggi, scrivo "sole" per non vedere la neve".
martedì 6 ottobre 2015
Ciuf, ciaf.
È
questa la soglia tra la realtà e la finzione, è a questo punto che
dovrei ritrovarmi? Sbatto la testa più forte che posso. È tutto
vero? È tutto finto? Mi chiedo se davvero sto cercando te oppure se
questo è soltanto un modo per trovare me stesso, quello che non ho
mai avuto il coraggio di essere, quello che mi costringo a cercare.
Sbatto la testa perché voglio capire se è tutto vero e a quanto
pare lo è. Sembra che io stia davvero camminando verso qualcosa,
sembra che io sia qui, realmente. Le luci dei lampioni sbattono
contro la notte, il rumore della città scivola su di me e cerca di
scuotermi, lo fa perché ne sente il bisogno, perché il suono si
scaglia contro chi non sente rendendolo cosciente del suo problema,
suona forte per me che mi rifiuto di sentire. Comunque io non mi
muovo, perché non ho mai sopportato questo obbligo, questa necessità
di correre contro il tempo per acchiapparlo, infondo questo non mi ha
mai reso tranquillo. Alla fermata di un treno in una città che urla
non si vede nessuno, apparte una donna con un cappello rosso. Nel bar
in una via che non ha nome non c'è anima viva, apparte un vecchio
con una valigetta verde. Colori che sbattono, anime che scivolano.
Questa sera sono malinconico e forse è proprio per questo motivo che
non riesco a vedere e a sentire. Sono in preda ad uno stato d'animo
che porta in superficie solo le tonalità più accese, quelle che
hanno deciso di esserci senza motivo, quelle che stanno lì senza
chiedere il permesso. Quella donna e quel vecchio. Due inutili
schizzi di luce che non servono, ma ci sono. Forse se piovesse tutto
questo avrebbe più senso. Non trovarti rende le cose ancora più
interessanti, rende interessante addirittura la pioggia ed io l'ho
sempre odiata. Se in questo momento incominciasse a piovere mi
convincerei che esiste un linea che collega il mio umore al meteo e
allora mi sentirei importante come uno che guardando un quiz show in
televisione da la risposta giusta prima del concorrente, direi "vedete, io lo sapevo già". Che cosa ridicola. C'è a chi piace
la pioggia, chi ci sguazza dentro stringendosi in coperte di lana e
thè ai frutti rossi davanti a un film buio con qualche battuta senza
ironia. Ma a me non sono mai piaciuti, né i frutti rossi né tanto meno
le coperte di lana. A questo punto non mi ricordo nemmeno più perché sono partito. So chi sto cercando ma perché? Ho scelto il giorno,
il modo, il mezzo e il tragitto, deciso, convinto, anche in parte
entusiasta. Poi piano piano qualcosa si è persa per strada. Sono
quasi convito che questa mia decisione improvvisa sia stato un altro
atto di un incosciente egoista che prova a fare l'altruista. Ero
partito per te e adesso cerco me. È proprio questo che mi rende
infelice questa notte. Sono vuoto perché mi sto preparando a sentire
le parole della città. Per esempio, adesso, mi sembra di sentire il
treno che fischia, il vento ha fatto volare il cappello di quella
donna, il vecchio invece beve una grappa barricata mentre un uomo gli
porta via la valigetta. L'ho visto, l'ho sentito.
“...un sentimento semplicissimo, quello di essere al mondo, esistere, esserci, nient'altro" (R. Frank)
sabato 3 ottobre 2015
se, mai, sì, no
Cadono pezzi di cielo. Va sempre così. Quando non te lo aspetti, quando l'ombrello l'hai lasciato a casa. Però oggi l'hai fatto apposta. L'hai lasciato a casa per fartelo cadere addosso quel pezzo di cielo o di carta che poi è un po' la stessa cosa.
Lo è per te, sia chiaro.
Non a tutti piace sentirsi le cose addosso.
E poi, ammettilo, fino ad oggi non piaceva nemmeno a te. Ti è piaciuto fingere con quel vestito arancione? Di' la verità!
Tutte le volte così.
Le storie degli altri sono così difficili da raccontare soprattutto quando gli altri sono altro da te. Fuori da te. Non sono te e lo sono, completamente.
Insomma, a te sono caduti dei pezzi di cielo addosso. La senti la temperatura che scende?
Ho sentito alla radio che andrà sotto lo zero ma soltanto per te. Mi dispiace.
Ti ricordi i se, i mai, i sì, i no, i fuochi, gli elastici? Ti ricordi quando in mezzo a tutti quei chiodi hai trovato quella cosa? Eri così spaventata ma sei stata intraprendente e ora ne paghi le conseguenze.
Quindi, ti dicevo, alla radio hanno detto che andrai sotto lo zero. Scivolerai piano piano sempre più in basso
e avrai freddo,
quel freddo che ti brucia addosso
e scivolerai su i se, i mai, i sì, i no, i fuochi e gli elastici.
Hanno detto anche che non potrai coprirti. Hai lasciato l'ombrello a casa, sei stata intraprendente e adesso paghi.
Ma aspetta a piangere, aspetta.
Le storie degli altri sono così difficili da raccontare soprattutto quando gli altri sono altro da te. Fuori da te. Non sono te e lo sono, completamente.
A che punto sei?
Sei già arrivata davanti alla candela?
Sì, sicuramente, altrimenti non faresti quella faccia stupita.
Già, la tua candela si accende con il ghiaccio.
Ridi è! che ti ridi?!
No non piangere, aspetta.
Ti ammalerai e sarai felice.
Voglio che tu sappia una cosa però: anche quando si accenderà la candela, anche quando vedrai la fiamma, non dovrai fermarti.
Lo so che vorresti riscaldarti ma non puoi.
Ti devi ammalare e mi dispiace, davvero.
Mi dispiace perché vorrei poterti dire se, mai, sì, no, fuochi e elastici. Vorrei poterlo fare per te ma sei stata troppo intraprendente.
Voglio dirti ancora una cosa prima di lasciarti da sola: non morirai.
Ecco, ora aggrappati a quel pezzo di cielo e senti. Senti pure. Non morirai.
Le storie degli altri sono così facili da raccontare soprattutto quando gli altri sono altro da te. Fuori da te. Non sono te e lo sono, completamente.
venerdì 2 ottobre 2015
Un bicchiere di acqua calda, grazie
Tutte le grandi tragedie hanno luogo
qui, in questo angolo sperduto di questo bosco nascosto al mondo.
Spesso mettere da parte la delusione, negarsela e mascherarla con dei
vestiti a fiori, è l'unica soluzione. Io mi sono fumata troppe
sigarette da quando sono qui e il vino ha perso il sapore che aveva
le prime volte ma non posso fare altrimenti. Sono venuta qui per
sentirmi addosso quei due/tre problemi, quella sensazione che
assomiglia alla febbre, quelle paure che bloccano, insomma tutte
quelle cose che sentono tutti e che io non sentivo più. Bene. Ho
portato una stufa, una coperta di lana, il the caldo e un libro che
non mi piace. Tutto questo dovrebbe aiutarmi a sciogliere tutto e a
sentire. Sentire. Ecco, mi fa male la pancia e forse mi sta per
uscire una lacrima. Dai, ci siamo quasi. Non ho freddo però la stufa
la accendo ugualmente. Una volta qualcuno mi disse che anche quando
non si sente freddo bisogna in qualche modo prevenirlo. Io lo avevo
guardato stupita "per quale assurdo motivo dovrei negarmi
l'unica cosa che mi salva?". Questo caldo assurdo fatto di piedi
che si toccano, occhi che si capiscono, battiti, farfalle, pianti e
cose varie. Io non volevo star male però so che mi sarebbe servito.
Perché adesso, ora che tu mi hai deluso e che te ne sei andato senza
spiegarmi il perché, mi è venuta voglia di ricominciare a suonare
il pianoforte e di scrivere quella storia che avevo messo nel
cassetto anni fa. Non volevo soffrire perché avevo paura di lasciare
tutto, di perdere la testa e perdermi. Invece, mi hai salvato. Tu sei
la sofferenza migliore che si possa desiderare perché la tua assenza
mi ha ridato la presenza, la mia, quella che fino ad oggi aveva un
vestito rosso con dei fiorellini bianchi.
Bugie a sfondo bianco con pois lilla
A:
"Ci ameremo, Luca. Ci ameremo ancora."
L: "Aveva ragione quello quando diceva che la coscienza umana è stato un tragico errore dell' evoluzione."
A: "A saperlo che bastava non sapere, far finta di non sapere. E invece abbiamo voluto sapere e questo ci ha distrutto. No, forse dovremmo finirla e fingere di non esserci mai persi. Ricordarci di quella volta che ci siamo amati per non innamorarci, che abbiamo sofferto per non soffrire."
L: "Si, ripenso a quando mi hai detto che non avrei mai dovuto baciarti se avessi voluto tenerti vicino a me, attaccata a me. Mi ha detto che i fatti rovinano i pensieri e io ho provato, giuro che ho provato, a non fare e a pensare e basta. A pensarti e ad amarti. Ad amarti pensandoti. A volte, però, mi viene voglia di sedermi su un divano e non alzarmi mai più. Lo so, non dovrei nemmeno pensarlo, ma te lo dico, te lo dico e basta. Una volta (non ora e neanche domani insomma una volta come c'era una volta) potresti venire su quel divano ad avere voglia di non alzarti mai più insieme a me, potremmo mangiarci su quel divano, guardarci i film, io non ci proverei, lo giuro Anita, non ci proverei davvero."
A: "Chissà quante volte ho immaginato quel divano. E ci ho mangiato. E ci ho pianto. E ci ho scritto un film. Non ho mai avuto voglia di alzarmi da lì ma l'ho fatto, senza essermi mai seduta, perché sapevo come sarebbe andata a finire e io non avrei mai voluto che finisse. L'ho fatto per noi, Luca, l'ho fatto per noi, per quel noi che non ci sarebbe mai stato se io avessi preso la bicicletta e fossi venuta su quel sofà."
L: "Aveva ragione quello quando diceva che la coscienza umana è stato un tragico errore dell' evoluzione."
A: "A saperlo che bastava non sapere, far finta di non sapere. E invece abbiamo voluto sapere e questo ci ha distrutto. No, forse dovremmo finirla e fingere di non esserci mai persi. Ricordarci di quella volta che ci siamo amati per non innamorarci, che abbiamo sofferto per non soffrire."
L: "Si, ripenso a quando mi hai detto che non avrei mai dovuto baciarti se avessi voluto tenerti vicino a me, attaccata a me. Mi ha detto che i fatti rovinano i pensieri e io ho provato, giuro che ho provato, a non fare e a pensare e basta. A pensarti e ad amarti. Ad amarti pensandoti. A volte, però, mi viene voglia di sedermi su un divano e non alzarmi mai più. Lo so, non dovrei nemmeno pensarlo, ma te lo dico, te lo dico e basta. Una volta (non ora e neanche domani insomma una volta come c'era una volta) potresti venire su quel divano ad avere voglia di non alzarti mai più insieme a me, potremmo mangiarci su quel divano, guardarci i film, io non ci proverei, lo giuro Anita, non ci proverei davvero."
A: "Chissà quante volte ho immaginato quel divano. E ci ho mangiato. E ci ho pianto. E ci ho scritto un film. Non ho mai avuto voglia di alzarmi da lì ma l'ho fatto, senza essermi mai seduta, perché sapevo come sarebbe andata a finire e io non avrei mai voluto che finisse. L'ho fatto per noi, Luca, l'ho fatto per noi, per quel noi che non ci sarebbe mai stato se io avessi preso la bicicletta e fossi venuta su quel sofà."
giovedì 1 ottobre 2015
Se bussi, ti apro
Tutto quello che scrivo è tutto quello che non ho. Non ho le caramelle all'entrata per accogliere gli ospiti. Non ho le calze bucate. Non ho l'eleganza del riccio e nemmeno l'insostenibile leggerezza dell'essere. Non ho la piastra per fare i waffel. Non ho l'ultima corda di una chitarra troppo grande. Non ho la chimica, la fisica, l' anestesia. Non ho il bacio della buonanotte e nemmeno quello del primo giorno di scuola. Non ho la catena del motorino. Non ho neanche il motorino. Non ho il coraggio di dirti che non ho tante altre cose. Tutto quello che scrivo è tutto quello che non ho. Turbini e saette e mi aspetti sotto casa fino alle sette.
Domenica piove
Adesso
fermati un attimo e prova a spiegarmi. Me lo devi anche solo per il
fatto che io mi sono fermata quella volta sotto la pioggia quando
avevi perso le chiavi di casa. Funziona così. Lo devi fare perché
io l'ho fatto e ti assicuro che quella volta non me ne fregava niente
di te. L'ho fatto e ora lo fai anche tu.
Prova a dirmi dove hai nascosto il mio diario. Non è divertente, lo sai che non posso parlare, che non ne sono capace. L'unica cosa che ho trovato è un foglio stropicciato e ringrazia il cielo che nella borsa ho sempre una Bic di scorta.
Prova a spiegarmi perché hai deciso di aiutarmi. Ti ho detto che non voglio? Che non ce ne è bisogno? Ma soprattutto, come pensi di salvarmi se mi privi dei miei fogli?.
Non sono una di quelle persone da poter mettere su una sedia. Non puoi fare l'analisi della situazione, non con me.
Lo capisco sai se non vuoi toccarmi. Io lo capisco. E tu?
Prova a spiegarmi perché ti ostini a tirare fuori dal cappello il mio coniglio bianco se non hai ancora capito che tipo di mangime preferisce.
Non si fa così. Non si cambia la disposizione del salotto il Lunedì pomeriggio. Lo si fa Domenica mattina insieme, dopo esserci svegliati, insieme. Dopo che io ho letto quello che avevo scritto la sera prima sul diario. Dopo che entrambi ci siamo ricordati del perché abbiamo deciso di cambiare. Dopo che, senza averlo progettato, abbiamo messo il quadro di Magritte vicino alla finestra.
Dopo che, colto da un'improvvisa illuminazione, ti sei ricordato che non mi piace il caffè e nemmeno il Martedì.
Prova a dirmi dove hai nascosto il mio diario. Non è divertente, lo sai che non posso parlare, che non ne sono capace. L'unica cosa che ho trovato è un foglio stropicciato e ringrazia il cielo che nella borsa ho sempre una Bic di scorta.
Prova a spiegarmi perché hai deciso di aiutarmi. Ti ho detto che non voglio? Che non ce ne è bisogno? Ma soprattutto, come pensi di salvarmi se mi privi dei miei fogli?.
Non sono una di quelle persone da poter mettere su una sedia. Non puoi fare l'analisi della situazione, non con me.
Lo capisco sai se non vuoi toccarmi. Io lo capisco. E tu?
Prova a spiegarmi perché ti ostini a tirare fuori dal cappello il mio coniglio bianco se non hai ancora capito che tipo di mangime preferisce.
Non si fa così. Non si cambia la disposizione del salotto il Lunedì pomeriggio. Lo si fa Domenica mattina insieme, dopo esserci svegliati, insieme. Dopo che io ho letto quello che avevo scritto la sera prima sul diario. Dopo che entrambi ci siamo ricordati del perché abbiamo deciso di cambiare. Dopo che, senza averlo progettato, abbiamo messo il quadro di Magritte vicino alla finestra.
Dopo che, colto da un'improvvisa illuminazione, ti sei ricordato che non mi piace il caffè e nemmeno il Martedì.
Pietra
Si
dice che per essere schiacciati c'è bisogno di qualcosa che
schiacci. Dicono, a volte, che una volta schiacciati si devono
raccogliere i cocci tra le macerie. Ma poi, quali macerie? Quale
polvere? C'è polvere, il resto, quello che rimane, sul fondo di chi
ha un fondo. È il resto di chi ha avuto. Qualcuno, lí sotto, non ha
trovato niente dopo. Dopo che quel qualcosa, che schiaccia e che non
esiste, è passato e se ne è andato. Il problema, quello che davvero
bisognerebbe chiedersi è: se il peso non c'è e comunque ti
schiaccia, se la polvere non c'è e comunque ci si sente cocci, il
colpevole chi è? Quello che sta sotto senza un motivo. Apparente,
suggeriscono. La colpa è di certo sua, concordano. Sembra che a
spingersi nel fondo, con il diavolo e gli uccelli, uno si logori
dentro. Si sta lí, senza motivo apparente, e si mangiano le parole.
Eppure, c'è chi giurerebbe, di aver sentito un uomo, lì sotto, dire
qualcosa vedendo qualcuno, in quel luogo vuoto. Lo ha detto con delle
parole che poi sono diventate la sua polvere. Non è lecito, a chi si
fa le spalle grosse per sorreggere quel peso inesistente, credersi
cavallo. No. Perché c'è sempre uno che sta sopra, che sta fuori dal
macigno. Ci sta sopra e si crede liberato. Per rispetto a quella
bugia chi sta sotto resta sotto e finge di sentirsi intrappolato. Per
lo stesso motivo, quello sopra, si pettina la criniera con la sua
faccia da uomo. Sotto, gli zoccoli preparano la polvere. Sopra, le
mani cercano di prendere l'aria. Ma poi, quale polvere? E chi è
quello la su? Allora il peso non c'è davvero se poi in fondo è così
facile guardare in su. Sembra, e soprattutto dicono, che quei due si
scambino continuamente parole. Parole, davvero. Cioè, che qualche
volta quello sopra mette da parte l'aria per cercare le macerie.
L'altro, in realtà, fa più fatica a trovare le sue mani in mezzo a
tutta quella bestialità primitiva a cui è costretto. Stando lì.
Volendoci stare. Però, quando finge di voler abbattere il muro,
lancia una parola in su, sperando di non vederla tornare giù. Mai più.
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