venerdì 23 ottobre 2015

Un the caldo in piazza



Una volta un uomo mi disse di cercarmi altrove.
Aveva gli occhi indaffarati, occhi di chi sa già tutto e a quel tutto è sopravvissuto.
Parlava facendo quei viaggi che solo una persona che non ha mai messo piede fuori da casa sua può fare. Sognava posti sconfinati, amori puri, persone oneste. Ma i suoi non avevano la sembianza dei sogni, piuttosto di realtà plasmate, costruite. Nemmeno inventate. 
Le sue parole avevano dei confini, dei limiti.
Potevano andare avanti ma non sbiadivano mai.
In pratica, i confini dei suoi luoghi erano circoscritti ma mai invalicabili. Si aveva l'impressione di poter andare molto oltre le cose che diceva ma per rispetto, e per stregoneria, si restava lì fermi insieme a lui, davanti al recinto.
Pochi su, questa terra, hanno questo dono. Di farti restare anche se hai la possibilità di andare. Quell'uomo disegnava con occhi e parole un mondo dal quale nessuno sarebbe mai potuto scappare. E, intendiamoci, non parlava di certo di nuvole e acqua pulita. Parlava del marcio, della nostalgia, dell'incapacità e della malattia. Ne parlava senza fatica e rammarico. Senza quell'ansia di capire che hanno tutti gli altri.
Mi sono chiesta se effettivamente fosse esistito o se fosse stato soltanto una proiezione di immagini che in quel momento avevo la necessità di vedere. E ho capito che, in realtà, le persone che incontriamo e che scegliamo di inserire nel nostro mondo non esistono in quanto tali ma esclusivamente come proiezione, appunto, di quello che vogliamo che esse siano.
Mi disse di cercarmi altrove.
"Cercarmi fuori da me?" domandai.
"Assolutamente no." rispose.
"Ma allora altrove rispetto a cosa?" gli chiesi.
"Altrove rispetto all'immagine che di te creeranno gli altri,
fuori dagli altri e mai fuori da te."

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