Una volta un uomo mi disse di cercarmi
altrove.
Aveva gli occhi indaffarati, occhi di
chi sa già tutto e a quel tutto è sopravvissuto.
Parlava
facendo quei viaggi che solo una persona che non ha mai messo piede
fuori da casa sua può fare. Sognava posti sconfinati, amori puri,
persone oneste. Ma i suoi non avevano la sembianza dei sogni,
piuttosto di realtà plasmate, costruite. Nemmeno inventate.
Le
sue parole avevano dei confini, dei limiti.
Potevano
andare avanti ma non sbiadivano mai.
In
pratica, i confini dei suoi luoghi erano circoscritti ma mai
invalicabili. Si aveva l'impressione di poter andare molto oltre le
cose che diceva ma per rispetto, e per stregoneria, si restava lì
fermi insieme a lui, davanti al recinto.
Pochi
su, questa terra, hanno questo dono. Di farti restare anche se hai la
possibilità di andare. Quell'uomo disegnava con occhi e parole un
mondo dal quale nessuno sarebbe mai potuto scappare. E, intendiamoci,
non parlava di certo di nuvole e acqua pulita. Parlava del marcio,
della nostalgia, dell'incapacità e della malattia. Ne parlava senza
fatica e rammarico. Senza quell'ansia di capire che hanno tutti gli
altri.
Mi
sono chiesta se effettivamente fosse esistito o se fosse stato
soltanto una proiezione di immagini che in quel momento avevo la
necessità di vedere. E ho capito che, in realtà, le persone che
incontriamo e che scegliamo di inserire nel nostro mondo non esistono
in quanto tali ma esclusivamente come proiezione, appunto, di quello
che vogliamo che esse siano.
Mi
disse di cercarmi altrove.
"Cercarmi
fuori da me?" domandai.
"Assolutamente
no." rispose.
"Ma
allora altrove rispetto a cosa?" gli chiesi.
"Altrove
rispetto all'immagine che di te creeranno gli altri,
fuori
dagli altri e mai fuori da te."
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