martedì 29 dicembre 2015

Binari




Viaggio alla ricerca della parola più difficile. Percorro strade sconosciute e mi affido alle righe degli uomini che sono quello che hanno avuto il coraggio di scrivere. Mi affido alle loro lettere, a loro che sanno dire il non detto con l'inchiostro più semplice. Onestamente, devo dirlo, mi fido di alcuni, pochi, pochissimi, tra questi. Cerco la mia parola, la più difficile, la più sofferta e non la trovo. Su queste vie sento echeggiare mondi lontani, città invisibili, dove Marco Polo disegna per me i contorni di quelle vite che io non vivrò mai. Marco Polo. L'uomo scelto dall'uomo che io ho scelto. Mi illudo, allora, che tra questi vicoli, qualcuno stia aspettando di scegliere me e la mia, ancora, banale parola. La conoscenza balla in piazza con l'esperienza e se la ridono. Dovreste vederle. Se fossi meno vigliacca, meno egoista, meno pigra, leggerei ovunque a qualsiasi costo. Leggerei e non sarei mai sazia. Se fossi meno cosciente della mia malattia adesso ballerei anche io al centro di questa inesistente città.
Marco Polo, mio amato, mia guida, prescelto del mio prescelto, da te voglio sapere soltanto tre cose.
Esiste una città in cui regalano la curiosità, dove questa non è data per scontata a tutti ma viene concessa in caso di mancanza?
Esiste un luogo in cui la mia parola possa avere il senso del nuovo senza la conoscenza del vecchio? Esiste un posto in cui io possa essere senza essere stata?
Parla ora,
ti prego
parla.

lunedì 14 dicembre 2015

Assenza. Astinenza. Ascolta



Pag. 28
Diario anonimo

"Le mie necessità riposano sulle rive dei mari più aspri.
Quel che è necessario, quando è impossibile, diventa quello che non si ha.
Lo stomaco si chiude a intervalli discontinui e io non riesco a calcolare la distanza che intercorre tra una fitta e l'altra.
Fa male, mio cuore, fa male, miei occhi, fa male tutto e non smette.
A intervalli, quando vuole, lo stomaco mi parla e mi riempe di insulti.
Io metto le mani nell'acqua nella speranza che possa avvenire il miracolo.
Che l'acqua mi dia quel che per me è necessario.
Quante bugie dette alla mia pelle per farla sembrare normale.
Le parole cattive, quelle che sporcano le serrande della casa sul lago, a me fanno più male. 
Male quando non sanno fermarsi,
male quando la bocca che le dice si spalanca e non si chiude più.
Dio che male, Dio.
La bocca, io, me la tappo ancora e ancora.
Gli occhi, però, non so chiuderli.
Lo vedo e non lo spiego sperando che sbiadisca
e non sbiadisce mai.
Quando diventerò io il lago
e tu la finestra
e loro le parole cattive che sporcano?
Le mie necessità sulle rive di questo mare aspro,
ecco dove sono.
Io non le prendo, non mi va.
Da qualche tempo mi faccio fare la vita dagli altri e nel sotterraneo non ci vado più.
Non ho più un posto, capisci?
Ma che ne vuoi sapere tu che di posti sicuri ne hai quanti ne vuoi.
Io ne avevo uno, uno solo e adesso
mi faccio fare la vita e non vivo più.
Urlo, piango, strappo il foglio, abbasso la serranda e mi piego.
Lo stomaco fa così male che ormai ho disimparato a respirare.
Se avessi avuto un sogno, un portafoglio e una bustina di the sarei stata una regina.
Poi tanti "bla" troppi "cosa?" altrettanti "aspetta" e io la regina non l'ho mai saputa fare.
Dio che male,
Dio.

sabato 5 dicembre 2015

I nomi che spiegano

                    Foto di Andrev Antonelli

Esaù ha un problema: dipende dai suoi problemi.
Qualche volta, quando è da solo a casa, chiude la porta a chiave, apre la finestra e si siede lì, davanti a tutto. Una scena simile a "L'infinito" di Leopardi e al "Mi isolo" di Chiunque.
Guarda la sua vita Esaù.
La vede sugli alberi, sui tetti, nelle strade, alle fermate degli autobus.
A stare lì, Esaù, la dà vinta a tutti quelli che hanno sempre pensato che non si sarebbe potuto chiamare in nessun altro modo. Un uomo intrattabile, solo questo e niente più.
Non parla, non sogna, non gioca, non si brucia. Se ne sta su quella sedia e per qualche ora si lascia accarezzare dalla sua malattia. I telefoni squillano contemporaneamente in ogni casa intorno a lui lanciandogli segnali di collettività. Un uomo solo, però, beve soltanto dal suo bicchiere. Un uomo solo davanti alla finestra, vede soltanto la sua vita e quella di nessun altro.
La disintossicazione, lo sa bene, è un lavoro che richiede sacrificio.
"Non chiedetemi, vi prego, di lasciare questa sedia. Sono un uomo buono, un uomo gentile.
Non faccio male a nessuno da qui, lo giuro."
La finestra fa di Esaù un uomo vigliacco. Come chi ha deciso di smettere di fumare e lascia un pacchetto di sigarette nel cassetto. Come chi diventa vegetariano e toglie il prosciutto dal panino.
Se la patologia resta a portata di mano ci si sente rassicurati. Questa è la verità.
I disturbi che si eliminano senza troppa fatica sono bruscolini già sbucciati e Esaù non mangia quasi mai. Quasi niente.
Un uomo intrattabile, burbero, rude. Tutto questo è quello che vuole essere. È inutile che finga a se stesso di essere una presenza leggera. Lui da quella finestra non spiccherà mai il volo.
Resta seduto, cementato a terra, incollato con i suoi problemi a un pavimento che sotto non ha altro che pietre.
L'altra verità è che la consapevolezza (che il grande pregio dell'uomo) rischia di diventare nemica di chi ha una dipendenza. Esaù, ad esempio è un uomo intelligente e difettoso. È cosciente di avere quel problemuccio lì ma lo vuole a tutti costi tenere al riparo. È consapevole di avere un male che non vuole curare.
Guarda la sua vita Esaù e sembra così bella vista dalla sua prospettiva.
La vede ovunque, su chiunque. Sugli alberi, sui tetti, nelle strade, alle fermate degli autobus. La vede e, quando vuole, la vive.

I problemi, a volte, sono così importanti che non si può far altro che custodirli, gelosamente, scrupolosamente, furtivamente, per sempre. Su una sedia, davanti a una finestra.

lunedì 23 novembre 2015

Quando piove, piove tutto



Una sera avevo sentito la storia di un cantante di musica blues scappato dall'America per andare a Parigi a cercar fortuna. Avevo subito pensato che era una follia, che uno non può scappare dalla terra dei sogni per andare in un posto dove di fortuna non la trovi nemmeno a pagarla. Avevo deciso di cercarlo, volevo sapere se poi alla fine ci era riuscito, se alla fine andarsene da un posto sicuro per sfidarsi gli aveva portato dei buoni risultati. Avevo bisogno di sapere se a qualcuno era andata bene per sperare, per incominciare a farlo. Il cantante si chiama Adam e quella sera avrebbe suonato in un piccolissimo pub semi sconosciuto. Avevo ragione io a pensare che era stata una scelta sbagliata, a quell'ora se fosse rimasto a casa sua avrebbe sicuramente fatto una vita più dignitosa piuttosto che essere un sottopagato cantante da piano bar. Quella sera mi sono seduto in un tavolino proprio davanti al palco e ho preso un bicchiere di vino. Quando Adam ha iniziato a suonare la prima cosa che ho notato sono stati i suoi occhi, sembravano vergognarsi. Cantava e sembrava voler chiedere scusa a tutti per quella voce bellissima e per il suono della sua chitarra. Ipnotico. Guardandolo continuavo a chiedermi se l'avesse trovata la sua fortuna. Ho aspettato fino alla chiusura del locale, perché dovevo chiederglielo, non me ne sarei potuto andare senza saperlo.
Adam aveva l'aspetto di un uomo d'America, un pò trasandato e riaggiustato. La sua voce era bellissima anche quando parlava, non potevi far a meno di ascoltarlo ma più di tutto, aveva una storia e aveva deciso di raccontarmela.
Si accendeva una sigaretta dietro l'altra, quasi come fosse obbligato, e ad ognuna di esse faceva sempre una piccola pausa, come se con loro finiva anche il pensiero che mi stava esponendo.
: "La Fortuna, l'hai trovata?" gli chiesi.
Adam aveva sognato la fortuna, l'aveva vista in quei pomeriggi cupi,l'aveva contemplata nelle sere d'estate, aveva creduto in lei. Credeva, a differenza di molti, che il sacrificio glel'avrebbe fatta conoscere. Per Adam la fortuna era una bella donna, una di quelle intoccabili, una di quelle per cui aspetteresti tre vite, una di quelle irraggiungibili, ma visibili. Non era fortunato, non lo era mai stato. Tutto quello che aveva avuto, lo doveva a quella voce rotta dal fumo, a qualcosa di non suo, qualcosa che aveva acquisito con il tempo. Non aveva talento ma soprattutto non era fortunato, e questo lo deprimeva. Suo padre Joe non avrebbe mai fumato, non avrebbe nemmeno toccato una bottiglia di whiskey. Adam mi diceva che suo padre non era un sognatore, che forse un sogno non l'aveva proprio mai fatto o se mai l'avesse fatto non se lo sarebbe mai ricordato, ma era un uomo ugualmente saggio e largo di vedute, a tal punto che aveva permesso ad Adam di non fare il suo lavoro, di non riempirsi le mani di calli come aveva dovuto fare lui.
La sigaretta era finita, e con lei anche il momento dedicato a questo primo pensiero. Gli succedeva sempre così. Quando fumava la sua mente ripercorreva l' infanzia costringendolo a ripassare per la strada di casa. Come se quel dannato pacchetto fosse il suo psicologo. Alla fine di quella sigaretta, si era ricordato il perché del suo disprezzo verso le persone pazienti, verso tutti coloro che sanno aspettare senza per questo sentirsi dei falliti. Il "tutto e subito" di Adam non era dovuto ad una voglia spropositata di arrivare nel punto prescelto e nemmeno alla fretta di avere qualcosa. Adam non era paziente perché il tempo non lo era stato con zia Lilly. Era il 18 novembre, le foglie non sembravano volersi staccare dagli alberi, era una di quelle giornate in cui si può passeggiare senza avere fretta. Adam era seduto sul muretto di casa sua, e stranamente quel giorno aveva qualcosa da osservare. Dall'altra parte della strada, quel giorno, Il vicino Jack aveva deciso di pitturare lo steccato, e questo era molto strano. Erano anni che quella casa si presentava nello stesso modo, bianca pallida,consumata, vecchia e tutti ormai c'avevano fatto l'abitudine. Adam proprio non se lo spiegava. Il verde della tintura lo infastidiva,non era pronto per un cambiamento del genere, e non lo sarebbe stato mai più. Un'ora dopo, Lilly, l'unica sorella di papà Joe, sarebbe morta. Adam avrebbe voluto che quella casa fosse rimasta bianca perché inconsciamente credeva che se le cose intorno a zia Lilly non fossero cambiate, non sarebbe cambiata nemmeno lei. Joe quel giorno, e per tutti i 18 novembre che sarebbero venuti, si era seduto sul muretto accanto al figlio, e insieme videro cadere le prime foglie. Così avevo capito. Adam aveva bisogno di credere e di farlo subito perché tutto poteva cambiare in un istante. Un giorno si era svegliato e aveva deciso che quel paese non era più suo, che non era più disposto a sedersi su quel muretto vedendo la sua vita passargli davanti. Sarebbe potuto restare, ma aveva scelto di partire.
: "Ho avuto l'impressione che ti vergognassi mentre cantavi. Perchè?" gli chiesi.
Adam smise di fumare, mi guardò dritto negli occhi e mi disse
: "Chi è l'eroe, quello che resta o quello che se ne va?"

Mi fece l'occhiolino e se ne andò.

martedì 17 novembre 2015

Banalmente sassi





Ticchettii di una vita a fatica. Una vita e basta. Una vita e tante altre. Senti che rumore che fanno i miei occhi, sentilo fino a non poterne più. Rendi il mio fiato più pesante, non farlo sembrare un passeggero incostante. Sento la pelle che si fa più elastica. Sento le gambe che ballano e la musica non smette. Non smette. Rapisci la tua debolezza e dammela. In mano, sul cuore, con i gomiti. Cammino ancora sulla mia rabbia. Ma che bella luna che hanno al di la del fiume. La chiamano per nome e ci fanno l'amore. E poi la musica c'è ancora. Sento che ridono e questo un po' mi dispiace. Prendo la
giacca e vengo con te. Oppure prendi la sabbia e stai da solo. Quanta fame ancora devo avere per poterti accarezzare? 
Quando mi chiamavano "felce" tu pescavi con le mani le parole.
Le canoe erano attaccate agli alberi e dell'acqua si aveva ancora paura. La paura pulita delle cose che ami e non vuoi  toccare. Quasi quasi l'amore lo faccio davvero, tanto che importa a quelli lì, la luna la chiamano comunque per nome. Non ci sono le stagioni per i nostri cognomi. Per i nomi poi, non ci sono le ore e forse nemmeno i minuti. Prendi la tua ingenuità e dammela. In mano, sul cuore, con i gomiti. Passeggio ancora sulla mia incoerenza. So che non basterà la tua pace. La luna è cosi bella quando non è mia. Quando la invidio e mi maledico. Quando la vedo nelle tue braccia e non ne resta nemmeno una parte per me. Sai che il ticchettio sta diventando una musica e non fai niente per fermarmi. Che strano modo che hanno di amare gli uomini al di la del fiume. Se senti anche tu che ridono allora vieni con me. Nelle mani, sul cuore, con i gomiti.E dell'acqua si ha ancora paura. La paura pulita delle cose che ami e non vuoi toccare.


sabato 14 novembre 2015

Il mio diritto, il tuo pretesto



Se la mia presenza immobile su questa sedia potesse bastare a significare il nostro tutto, me ne starei qui, seduta, per sempre.
Devo, invece, spiegare delle cose a quelle persone che ci stanno guardando. Si sono messe in prima fila e so che non se ne andranno fino ai titoli di coda. Anzi, probabilmente resteranno lì a fissarci fino a che lo schermo non sarà definitivamente nero.
Che fatica, che stupida smania di comprendere.
Non so dire nemmeno a me, alla me che ogni tanto va giù in cantina, il perché di tante stranezze.
Strano è l'odore della mia pelle quando è vicina alla tua. Un odore aspro, dolce, imbarazzante. Devo spiegargli, a quei due che si sono accomodati proprio davanti a te, che non possiamo farne a meno. Che ci sono alcune cose che per quanto cerchiamo di evitare non possiamo controllare. Per quanto la testa, la mia, dica sempre no ho l'impressione che si stia abbandonando alla semplicità di un leggero sì. Leggero e scomodo. Per quanto il corpo, il mio, non abbia raggiunto una temperatura equilibrata mi sembra che voglia comunque restare qui, vicino a te.
Strana è questa giostra di mani che alzano l'aria.
Quando guardo la parte di cielo che hai scelto per me mi dico che forse non ne esiste un' altra. Nego a me stessa tutto il resto per credere che ci sia, nel mondo, soltanto quel giardino recintato.
Le carezze dovrebbero servire a questo. A escludere tutto quanto tranne quello che c'è, adesso, qui, in modo esclusivo. Dovrebbero incatenare la curiosità, nascondere la valigia, limitare la visuale. Le tue dovrebbero tenermi seduta qui e obbligarmi a dire soltanto a te quello che adesso sto cerando di spiegare a loro.
So che non avresti mai voluto lasciarmi fare questo ma voglio dirti che non hai nessuna colpa. Non ti giudicare per le notti passate a mordere i miei occhi, a soffiare sulle mie labbra, a cercare respiri pieni. Quei respiri che nemmeno loro adesso possono sentire. I respiri che abbiamo imparato a controllare, a mascherare, a fare nostri in modo assoluto.
Se tutte le nostre modalità potessero effettivamente essere spiegate potrei starmene qui, banalmente, e tutto verrebbe rivelato dalla posizione del mio corpo su questa sedia. Invece devo chiederti scusa. Scusa perché non so parlare con delle parole più misurate. Scusa perché non sono riuscita a preparare un discorso comprensibile ai più. Quello che posso fare è, per il momento, mettere insieme quelle cose che sono visibili a tutti e dirle senza vergogna provando a nascondere le fitte che ho allo stomaco. So che non avresti voluto lasciarmi fare questo. Ma vedi, cuore mio, guarda davanti a te. Lo vedi? Non siamo più da soli. Non più.


mercoledì 11 novembre 2015

Senna



Era lì, sul pontile e scivolava. Qualcuno l' aveva portata li, qualcuno che non voleva vederla più. 
L' aveva presa, trascinata, convinta.
Ora se ne stava lì, quasi per dispetto, come se infondo a stare lì, ferma, quel qualcuno fosse costretto a guardarla. 
Non era notte.
Non era giustificata a cercare luce nel buio.
Non aveva  motivo per stare lì. Proprio nessuno.
In effetti non si poteva fare a meno di guardarla. Aveva un modo di stare immobile che dava ai nervi, un fermarsi arrogante.
Le avresti voluto dire "spostati, non stare lì, almeno non in quel modo!".
Scivolava come solo lei sapeva fare, leggera, immotivata, inadeguatamente leggera.
C'era il sole alla linea. Quella che divide l'acqua dal cielo, che separa il grande dall'immenso. Quella che divideva lei, dentro, tra il cuore e lo stomaco. Proprio per questo se ne stava lì.
Non sapeva cos'altro fare. Quella linea, la immobilizzava.
Eppure a guardarla nessuno avrebbe pensato che in realtà era felice di non riuscire a muoversi.
La guardavi e sembrava terrorizzata, fuori luogo appunto.
Lei, invece, era sollevata.
Avrebbe voluto ringraziare quel qualcuno per averla costretta a stare, finalmente, ferma.
Aveva corso lungo la linea tutto il tempo, tutto quello che le era stato richiesto, con tanto di quel fiato che aveva creduto di non farcela più.
Ma adesso, proprio lì dove non aveva mai pensato di ritrovarsi, aveva trovato la pace.
Ora che era scesa da quella linea per restare sospesa, si sentiva bene.
A volte, pensava, la vita ti porta su strade sconosciute.
Qualcuno ti fa perdere per poterti ritrovare.
Non è vero, pensava, che la certezza è una cura.
Lei si curava perdendosi, trovandosi per caso dove non sarebbe dovuta stare.
Sapeva che una volta andata via da lì avrebbe smesso di sentirsi tranquilla.
Se avesse mosso anche soltanto un dito di una mano, sarebbe caduta.
Stava lì, come un palloncino in aria l'attimo prima di scoppiare.
È solo che lei non sarebbe scoppiata. Si sarebbe mossa e questo avrebbe cambiato tutto. 
Allora per un po' se ne sarebbe stata lì, ferma, solo per il gusto di rimandare l'inevitabile.
Avrebbe aspettato il momento giusto per scegliere di cambiare.
Avrebbe mosso un dito e poi,
Puf...

sabato 7 novembre 2015

Elogio



Care parole,
cari indumenti comodi,
oggi voglio ringraziarvi e perdonarvi.
Lascio alla mia penna il compito di scegliere tra di voi le più coraggiose, quelle che sanno esserci subito senza filtri.
La soglia tra il rumore e il suono, il mare, la strada, la brina.
Il tuono, il vuoto, il fruscio.
Tengo per me le lettere più dure, quelle che graffiano, quelle che nutrono.
Addolcisco con il blu il fiore del mai e do al tunnel una luce calda e rassicurante.
I fili che collegano le cose sono impercettibili per chi sta seduto, invisibili per chi resta in piedi.
Mi sdraio su un letto di punti e virgole e vi vedo.
Cari vestiti, io finalmente vi vedo. 
Siete filamenti, catene, corde che tengono uniti tutti questi occhi.
E siete belle, parole mie, siete mie.
Da qui non se ne va nessuno, non più.
Sento tra le dita i vostri nodi e non ho paura.
So che li stringerete sempre più forte. E non ho paura. Non più.
Forse sarei dovuta cadere senza trovarvi e imparare a modellare la terra senza l'inchiostro.
Forse mi sarei dovuta tuffare nel mare delle cose senza di voi per poter essere realista, per diventare una di qui.
Mi avete reso una clandestina, mi avete protetto con pietre e ghiaccio e adesso non so più tornare indietro.
Oggi, però, vi perdono per avermi salvato.
Allora continuate pure.
Chiedetemi il rispetto dei giorni a metà, quelli che iniziano più tardi e finiscono senza ma.
Parlatemi di distanza. Ditemi l'assenza.
Imponetemi il rifiuto dei giochi in superficie.
Datemi sempre pietre, pietre e ancora pietre.
Salvatemi dal desiderio di abitare un mondo che non sa più corteggiare.
In cambio io vi porterò dovunque e sarete le più belle, le più invidiate, le più ripetute.

Lancio una moneta questa sera.
Se esce testa scrivo Padre,
se esce croce scrivo Madre.
Anzi, 
la lancio domani.
Aspettatemi
e perdonatemi.

mercoledì 4 novembre 2015

Cambio di stagione



In questi momenti, quando penso a quelli che in qualche modo cercano un modo per capire, tendo a distaccarmi, ad allontanarmi il più possibile da questi pensieri. Supero il ricordo e cerco di rimetterlo al suo posto, come fanno quelle persone che sorridono forzatamente il secondo dopo che una catastrofe le ha investite. A quanto pare, questo, lo so fare bene. L'attimo dopo che un dubbio mi assale, prendo il pensiero in mano, lo analizzo quel tanto che basta per capire che non è il caso di farlo diventare un problema e lo nascondo in un angolo appositamente creato nella mia mente, l'angolo delle cose volutamente cancellate, l'angolo, quindi, delle vigliaccherie, quelle che prima o poi sbucano fuori e ti costringono a fare i conti con tutto. Così, anche questa volta, il pensiero di quelli che cercano una soluzione è stato rinchiuso e al suo posto è sbucato fuori il desiderio di costruire qualcosa con questi pezzetti di legno che ho trovato in mezzo al prato. Montare, accozzare pezzi di cose trovate qua e là mi fa venire in mente la suora, quella della montagna, e Pit, il ragazzino protagonista delle storie che mi raccontava mia nonna in quei pomeriggi seduti sulla panchina, vicino a quella casa dove aveva deciso di morire.
Il pettine bagnato sotto l'acqua, i capelli da una parte, i denti lavati, il borotalco messo. Per Pit la domenica era il giorno della camicia profumata. Si preparava tutte le volte allo stesso modo, tutte le volte con la stessa emozione. Fin da quando era davvero piccolo, la nonna gli aveva insegnato che per andare in chiesa bisognava rendersi presentabili e per questo motivo tutte le domeniche gli faceva trovare dentro l'armadio la camicia, la giacchetta blu e il pettine appoggiato sopra. Era contento, tutte le volte come fosse la prima, perché per lui, quello era il giorno pulito. Entrato in chiesa, si sedeva vicino al padre e alla nonna e in silenzio vedeva passare davanti a se tutti i personaggi delle sue favole. Immaginava i credenti come cavalieri di un paese sperduto diretti verso l'altare del re che con la sua spada conferiva le onoreficenze. Pit era fatto così, per provare piacere nelle cose, anche le più noiose, doveva immaginarle in un altro mondo, con altri personaggi, con altre storie. Nella sua mente, la suora seduta in prima fila era sempre la principessa più bella del reame. Tra tante ragazze che entravano, era sempre a lei che dava il ruolo più bello, ma non lo diceva a nessuno, avrebbero pensato male. Sapeva, dalle storie della nonna, che le suore e i preti non dovevano essere guardati in un certo modo, perché è a Dio che loro guardano ed è il cielo il loro regno. Tutte le volte, Pit entrava e la cercava, tutte le domeniche, per anni. Tornava a casa, si toglieva la camicia e con il legno che aveva a casa costruiva crocifissi, come quelli che portava lei. Li costruiva tutte le volte perché in cuor suo sperava un giorno di poterglieli regalare, senza guardarla in nessun modo, portarglieli come un cavaliere porta un dono alla sua principessa, senza ricompensa, senza doppi fini. Quella sua passione per gli oggetti era nata proprio una di quelle mattine in chiesa mentre guardava la sua meravigliosa dama. L'oggetto lo distraeva dal pensiero, lo estraniava dal problema, lo aiutava a realizzare l'idea e ad accantonarla nel cassetto.

E così le mie idee, anche oggi, ancora oggi, sono state messe all'angolo.
Che bella questa fionda.
Che bella.

sabato 31 ottobre 2015

Benvenuti esecutori



Sfumano nel cielo i colori che non so mettermi addosso. Pensare di poter stare in questo luogo senza distruggermi è stata una bugia che mi sono raccontata per troppo tempo. Quando parlo di vita so che non sto parlando della vita, quella che si vive perché, altrimenti, non avrei bisogno di parlarne. Quale sarebbe la strada? Quali sono i cieli? Dove sono le mani? Gli alberi, non respirano più, hanno deciso di far respirare gli altri e non respirano più. Questa continua ricerca del no, del quasi, dell'oppure ha tolto la luce al lampione. Se nel mondo ci fosse, per ogni lampione una luce sicura e calda non dovremmo più preoccuparci di niente. Basterebbe anche solo questa piccola e nascosta sicurezza. Di uscire di casa e avere una luce assicurata. Se nel mondo ci fossero abbastanza cappelli per tutte le teste allora non dovremmo più preoccuparci di riscaldare le idee. Quando parlo di vita so che non sto parlando di vita, quella che si vive. Se su ogni citofono del mondo ci fosse almeno un etichetta con su scritto il mio nome allora non mi sentirei così distante da tutto. Mi affanno per stare in un posto in cui gli alberi hanno smesso di respirare e vorrei non doverlo fare. Non ho scelta. Sono destinata a parlare di vita per farla respire agli altri, proprio come fanno questi maledetti alberi. Do agli altri quello che io non posso avere più. Il lampione, la luce, il cappello, il citofono.

mercoledì 28 ottobre 2015

Dicesi consapevolezza



Io di vita dentro ne ho sentita una volta ed ho capito una cosa.
Le persone che incontri riempono la scatola di cose che in verità già possiedi. Questo lo sapevo già, ma quello che ho capito al tempo è che siamo dei pesaculo. Lasciare agli altri il compito di buttare dentro tutto il necessario è solo un modo per non farlo da soli, per non avere coraggio, per lasciarsi fare la vita. Ci si presenta come una scatola vuota giusto per il gusto di dare all'altro la possibilità di sentirsi importante, di dirgli "mi completi". Io la vita me la sono sentita addosso quando ho semplicemente deciso di lasciare la mia scatola mezza vuota. Dentro c'erano i miei obiettivi, il mio amore per Rachele, l'affetto per mia madre e soprattutto il mio diario pieno di parole e parolacce. Non c'era niente di altri, niente che qualcun altro aveva provato a metterci dentro. Forse l'unica cosa che potrebbe essere stata di un altro è l'amore per Rachele. Ricordo che una volta mi era capitato sotto mano un libro di un mio amico che faceva lettere all'università. C'erano dentro tante cose scritte sull'amore, Platone, Petrarca, e soprattutto Ficino. Quello che mi sono costretto a capire e che probabilmente non è il vero senso del testo è che l'amore è morte e doppia vita, l'anima che muore nell'amante migra nell'amato che ricambiando il sentimento le da nuova vita. Insomma una gran bella teoria che spiegava il perché del dolore che è anche piacere, del fuoco che è anche ghiaccio e della vita che quindi è anche morte. Allora se devo pensare alla mia scatola, forse Rachele qualcosa ci ha messo dentro.
Apparte lei, per il resto era tutta roba mia. Lì, dentro le mura della mia testa riempita a metà mi sentivo felice, sentivo di avere in mano la mia vita, di poter gestire tutto perché tutto quello che avevo ero io. Poi, dentro ci sono finite il mio squallido lavoro, l'assenza di Rachele, la malattia di mia madre e le mie parole che ormai erano solo parolacce ed ho sentito di non poter far niente. Insomma, nel momento in cui ho cercato negli altri un po' di me, mi sono perso e ho perso tutto. Questo viaggio per me è un po' un voler svuotare la scatola di tutto quelle cose che altri hanno cercato di mettere dentro. Lasciare solo me, i miei sentimenti, le mie parole e buttare quelli degli altri. Sembra un desiderio di un burbero egoista che si chiude nella sua solitudine, ma io ho semplicemente deciso di vedere questa scatola, che è la vita, mezza piena.

martedì 27 ottobre 2015

A metà strada



Scriverò per te lettere al profumo di niente
e avranno tutte la stessa lunghezza e lo stesso finale.
Scriverò ogni giorno qualcosa che non vorrà significare e nemmeno essere.
Te le manderò ogni giorno alla stessa ora e tu mi risponderai.
Non ci saranno parole piene, non ci saranno momenti cruciali, non ci sarà mai una morale.
Scriveremo per tutta la vita una storia che non dovrà essere vissuta, che non potrà trovare il suo significato in nessuna cosa del mondo.
Tutte le volte che aprirai la busta penserai che quella sarà la volta buona, la volta in cui ti dirò che ci sono e ci sono per te.
Leggerai con calma aspettando il momento in cui io mi rivelerò a te.
Saprai che in un luogo a te sconosciuto si starà svolgendo un evento incredibile.
Io starò scrivendo la storia di un amore che non vorrà, e non saprà, avere il sapore dell'amore.
Un testo senza occhi, parole senza pancia.
Scriverò per te fiumi di sbagli, manciate di promesse e nessuna di queste vorranno dire "perché?".
Mi risponderai da un luogo a me sconosciuto righe di tristezza, virgole di delusione e nessun punto avrà per me la forma di una fine.
Per la vita sarai la mia penna e per un'altra vita ancora io sarò la tua carta e tutto questo non vorrà significare altro che quello che è.
Un inesistente qualcosa che non si costringe ad essere.
Scriverò per te lettere al profumo di niente.

venerdì 23 ottobre 2015

Un the caldo in piazza



Una volta un uomo mi disse di cercarmi altrove.
Aveva gli occhi indaffarati, occhi di chi sa già tutto e a quel tutto è sopravvissuto.
Parlava facendo quei viaggi che solo una persona che non ha mai messo piede fuori da casa sua può fare. Sognava posti sconfinati, amori puri, persone oneste. Ma i suoi non avevano la sembianza dei sogni, piuttosto di realtà plasmate, costruite. Nemmeno inventate. 
Le sue parole avevano dei confini, dei limiti.
Potevano andare avanti ma non sbiadivano mai.
In pratica, i confini dei suoi luoghi erano circoscritti ma mai invalicabili. Si aveva l'impressione di poter andare molto oltre le cose che diceva ma per rispetto, e per stregoneria, si restava lì fermi insieme a lui, davanti al recinto.
Pochi su, questa terra, hanno questo dono. Di farti restare anche se hai la possibilità di andare. Quell'uomo disegnava con occhi e parole un mondo dal quale nessuno sarebbe mai potuto scappare. E, intendiamoci, non parlava di certo di nuvole e acqua pulita. Parlava del marcio, della nostalgia, dell'incapacità e della malattia. Ne parlava senza fatica e rammarico. Senza quell'ansia di capire che hanno tutti gli altri.
Mi sono chiesta se effettivamente fosse esistito o se fosse stato soltanto una proiezione di immagini che in quel momento avevo la necessità di vedere. E ho capito che, in realtà, le persone che incontriamo e che scegliamo di inserire nel nostro mondo non esistono in quanto tali ma esclusivamente come proiezione, appunto, di quello che vogliamo che esse siano.
Mi disse di cercarmi altrove.
"Cercarmi fuori da me?" domandai.
"Assolutamente no." rispose.
"Ma allora altrove rispetto a cosa?" gli chiesi.
"Altrove rispetto all'immagine che di te creeranno gli altri,
fuori dagli altri e mai fuori da te."

mercoledì 21 ottobre 2015

La mongolfiera



Farei per te tante cose.
Non posso mentirti.
Gli uomini si affannano continuamente a inventare delle bugie accettabili.
Passano molto tempo a crearsi e si dimenticano che quello che più conta è creare altro, fuori dalla propria scatola.
Non posso, perciò, chiederti di lasciarmelo fare.
Mentiresti nel dire sì, mentiresti e ti faresti male.
E allora va così.
Leggo le cose del mondo con gli occhi curiosi, pieni, affamati e posso farlo in questo modo esclusivamente perché lo sto facendo per te. Perché non è vero, togliamocelo tutti un po' dalla testa, che le cose migliori sono quelle che soddisfano il proprio ego.
Se ti stai chiedendo se sono cosciente e razionale, beh ti rispondo "ovviamente si".
Ci ho pensato e sono arrivato alla conclusione che è solo in questo modo che possono andare le cose nel mio mondo. Soltanto se penso di correre mi sento continuamente rinnovato, rigenerato.
Per questo motivo ti assalgo, ti sfinisco. Perché tu te ne vada lontano. Per provare a raggiungerti.
E fischia il vento, forte, arrogante, nelle mie orecchie.
Vuol dire allora che mi sto muovendo e che tutto sta andando come ho progettato. Sto correndo, per te.
La cosa più incredibile è che non lo saprai mai.
Penserai di avermi lasciato in un angolo con gli occhi vuoti, gli occhi di chi ti ha ascoltato e ha scelto di assecondarti. Gli occhi, quindi, di chi si è arreso ai tuo abissi. Penserai di avermi convinto che la vita è individualità, un gioco che non si può fare in squadra.
Un gioco, appunto.
Ma sono fortunato sai? Non mi è mai piaciuto giocare. Non mi è nemmeno passato mai per la testa di tirare i dadi e lasciare tutto al caso.
Si passa davvero tanto tempo davanti allo specchio a rendersi presentabili. Per quale scopo? Per chi? Se poi alla fine davanti a quello specchio si resta da soli, a cosa serve vestirsi?
Lascio che tu creda di avermi messo alle strette, di aver arrestato il mio moto.
Lascio che tu pensi a te stessa anche questa volta.
L'egoismo fa vincere le partite il pomeriggio alle 15 con il sole e l'aria fresca.
Io vinco Domenica mattina, sotto la pioggia, con il fango e le scarpe slacciate.
Continuerò a guardare dentro la tua scatola e ruberò, ogni giorno, un po' di te, senza dovertelo chiedere, mai.

Farei per te tante cose.

martedì 20 ottobre 2015

Prospettive



Cecco, vecchio matto. Quella volta che girò nudo per il paese fece parlare tutte le malelingue. Eppure non era pazzo, per niente, anzi, la testa ce l'aveva, sana, sulle spalle. Quel giorno però aveva guardato il sole e non era riuscito ad amarlo. C'era questa leggenda, che quando uno lasciava il sole per le nuvole, impazziva.
In verità, Cecco, non era impazzito. La testa ce l'aveva, eccome.
L'unico difetto: scriveva.
Era da tanto che ormai si interrogava sulla verità, sulla finzione, sulla verità trasformata in finzione. Soprattutto, sulla menzogna e la capacità che le parole hanno di rendere vero qualcosa che non esiste. Scriveva di creduloni che abboccano, di uomini che soffrono, di parole che perdono di spessore.
Poi, un giorno, nel suo giardino, davanti alla sua macchina da scrivere, gli venne in mente un'idea geniale (poi... geniale. Un'idea semplice, ma almeno, un'idea).
Come avrebbe potuto parlare di pesci senza essere stato nell'acquario? Allora prese amo e consapevolezza, e andò a cercarli questi creduloni.
: "Povero Cecco, è impazzito anche lui. Il sole non perdona."
: "Che scandalo! Che pena che mi fa. Eppure lo dicevamo noi... quello è sempre stato matto!"
Correva Cecco, con la sua nudità arrogante, urlando : "Odio il sole! Nuvole bianche, la vita, la sfida, la riga"
Mai stato pazzo, forse, la persona più intelligente che quel paese avesse mai potuto vantare.

Nel suo giardino, ha continuato a scrivere storie meravigliose guardando il sole e le nuvole. A volte nudo, a volte soltanto con le mutande ma sempre in compagnia del suo pesce rosso, Cecco il matto. 

lunedì 19 ottobre 2015

Ho comprato: una maglietta, un maglione, una giacca e un cappello



[..] Anche quella ragazza che si destreggia sul palco in fondo alla strada non fa che distrarmi dal mio obiettivo. Avevo sentito parlare di questa nuova moda di motivare con libri motivatori persone che ricercano un motivo, insomma, apparte il gioco di parole, Guru improvvisati che scrivono libri autobiografici per convincere gli altri che "si può esser felici".
A quanto pare Ebe, questo è il nome della "musa" di questo pseudo seminario improvvisato e arrancato in questa piazza, è una tra le più seguite e venerate motivatrici in questo momento. Nel suo libro racconta la sua storia parlando in terza persona, anche questa sembra essere una nuova moda, esponendo ciò che l'ha portata ad essere la donna forte che oggi, pare, sia diventata.
(Ritornare Ebe, pag 54)
 una vita che lascia le schegge addosso. L'ha sempre pensato, ma adesso, ora che quelle schegge le sono entrate nella pelle, non sa come farle uscire fuori. Che poi, chi lo dice che bisogna liberarsene? Si sente quasi sollevata a questo pensiero, in qualche modo avrebbe fatto finta di non averle e se proprio qualcuno ci avesse fatto caso, avrebbe fatto finta di niente. Si sente parlare di rimedi, addirittura un curatore cinese dice di aver trovato un rimedio per eliminare tutte le tracce, per non farle tornare mai più. Continua a non capire il perché di questa necessità di eliminarle. Sono schegge di una vita che ha vissuto. C'è tanta di quella gente che ha il coraggio di andarsene in giro con le cravatte bicolore, capigliature a nido di uccello e foulard di naftalina. Eppure quel curatore con gli occhi a mandorla non ha trovato una cura alla banalità, anzi, a quanto pare dice proprio che non serve, che il grigio è normale, il viola livido no. Schegge indolore, non pungono, non prudono. Stanno li perché devono significare qualcosa, allora stanno lì. Si sentono storie di gente che ha provato a levarle e non è mai tornata indietro. Allora, chi glielo fa fare? Sembra addirittura fiera di averle. Sono schegge che sembrano medaglie, ogni ferita è un traguardo, ogni taglio una vittoria. Quasi come se quella del dolore fosse la partita più bella da giocare e come premio si ricevano proprio quei minuscoli simboli di battaglia. Dovreste vederla ora andare in giro con quelle sue cicatrici, bella orgogliosa. Sembra che il curatore abbia iniziato a cercare una cura per quell'altra malattia, quella delle cravatte bicolore, le capigliature a nido d'uccello e i foulard di naftalina. A quanto pare la normalità è diventata la scheggia. Chi l'avrebbe mai detto?". In effetti non è un argomento sbagliato da trattare, soprattutto se ad ascoltarti ci sono molte donne. Ma è davvero giusto convincere qualcuno ad essere fiero di mostrare le proprie cicatrici perché sono il risultato di un coraggioso atto di accettazione del dolore? E quelli che non lo accettano e fanno di tutto per eliminarne i segni, per non renderli visibili agli altri, dietro cravatte bicolore, sono davvero da ritenere così banali-normali e addirittura i nuovi malati? La verità è che non ho nessuna intenzione di chiederlo ad Ebe e poi, fondamentalmente, non mi interessa così tanto. Io a volte indosso una cravatta, altre volte scopro la ferita. Credo che ognuno sa quando è il momento di coprirsi e quando quello di spogliarsi.

domenica 18 ottobre 2015

Sta squillando un telefono



Siamo persone normali Margherita.
Scusami per averti fatto credere che esistevano le nuvole di zucchero a velo ma avevi bisogno di un motivo. Ti ho incontrata e avevi bisogno di qualcosa che ti rimettesse in moto. Allora io ho preso quelle quattro parole, facili, semplici e banali e te le ho spedite. Te le ho mandate ogni giorno, alla stessa ora, perché tu sapessi di non essere sola. Perché tu non ti spegnessi dinuovo. L'ho fatto perché anche io avevo bisogno di qualcosa che mi facesse muovere. E il tuo buio è stata la mia carica.

Quant'è triste Marghe che io e te ci siamo usati in questo modo senza avere effettivamente la voglia di farlo. Io oggi ho sentito qualcuno che suonava il pianoforte e ha incominciato a bruciarmi la gola. Mi sono ricordato delle lacrime e del perché avevo deciso di chiuderle nel barattolo che ho nel cassetto più alto dell'armadio. Non le devi sentire quelle persone, quelle che ti diranno che è giusto abbandonarti perché ne vale la pena. Non vale la pena partecipare, non per te. Tu vinci Margherita, hai sempre vinto. Credi a me quando ti dico che le cose cambiano in un attimo. Credimi perché io mi sono approfittato di te e soltanto adesso mi rendo conto che è stato veramente troppo semplice. Allora ho iniziato a pensare a tutti quelli che lo avrebbero fatto al posto mio, tutti quelli che avrebbero usato quelle quattro parole per farti respirare. Respireresti per chiunque, lo faresti per così poco. Voglio dirti alcune cose, per l'ultima volta, perché so che ti faranno bene, perché ti terranno accesa ancora per qualche minuto.

Come sei bella quando ridi Margherita. Sei bella, bella da svegliarsi la mattina e mettersi la felpa prima di uscire dal letto.
Come sei bella e nessuno te lo dice mai. È un peccato perché ogni volta che qualcuno non te lo dice tu pensi che non l'abbia notato. Allora ti togli la felpa e ti metti il reggiseno. Ed è un peccato.
Come è bella la tua mente Titì! Lascia per strada briciole.
E non è vero che nessuno la vuole, che l'impegno è fuori moda. Non è vero che devi accontentarti di organizzare le tue serate, che nessuno ti aspetterà con lo stomaco chiuso, che non ne vali la pena.
Sei così bella che verrebbe voglia di  abbassare la serranda del negozio.

Non è vero, ti prego di credermi, che nessuno cambierebbe per te. Per te non esistono paure, confini, proibizioni. Non fa niente se ci siamo abbandonati.

A cosa serve smettere di fantasticare? Qui è Domenica già da un po' e ci sono i tuoi desideri messi in ordine sul tavolino. Li ho catalogati in ordine di importanza e sto aspettando che vieni a prendertene qualcuno.

Non smettere Mimì, per favore. Gli uomini chiudono gli occhi per sperare. Tutti, tranne te.

Come sono belli i tuoi occhi Margherita. Come sei bella.


giovedì 15 ottobre 2015

Io scelgo picche, e tu? Fiori.



Sai essere prepotente e arrogante, come le gambe quando si accavallano.
E mi chiedo, sarà mai possibile scrollarsi di dosso le gambe?
Si può essere e allo stesso tempo sembrare.
Si può credere di essere e poi sembrare soltanto.
Si può, a volte, chiedere a qualcuno di lasciarti essere.
Ed è una bugia, una stramaledetta bugia che dici a te stessa per nascondere le gambe.
Non si può chiedere una cosa del genere.
Quando si chiede non si è già più.

martedì 13 ottobre 2015

Condizionale



La guardavo continuamente e tutte le volte pensavo che avrei voluto scrivere per lei una di quelle cose immense che hanno già scritto tutti, gli altri, quelli bravi. Volevo prendere tutte quelle parole e appiccicarmele sulla mano, sulla penna. Non sarebbe stato un furto, un prestito, piuttosto, per una giusta causa. Avrei usato Roth per dirle " Amo… amo la tua mente. Amo il modo in cui metti in mostra la tua mente quando parli" e lei avrebbe socchiuso le labbra e improvvisamente avrebbe sorriso. Sapevo che non avrebbe mai potuto scoprirmi, lei che un libro non lo aveva neanche mai comprato. Così avrei potuto corteggiarla tutto il giorno, tutti i giorni, con frasi ad effetto e diventare piano piano l'uomo che aveva sempre desiderato. E si sarebbe sentita l'unica al mondo, amata come nessun'altra e la mia sarebbe stata una bugia, un prestito per una giusta causa. Una sera io e Buzzati le avremmo lasciato un biglietto sotto la porta "Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo" e lei sarebbe corsa da me, piena e viva.
Infondo ho sempre pensato che è a questo che servono i libri, a riempire i vuoti degli altri, quelli che non sanno chiamare le cose con il proprio nome.
Era amore, lo so. La amavo immensamente, per me oltre al suo contorno non esisteva nient'altro. Il suo pensiero era il più bel libro che fosse mai stato scritto. Anzi, sarebbe stato il più bello se qualcuno fosse riuscito mai a scriverlo. Perché la sua storia, lei non lo avrebbe mai saputo, l'avrebbero scritta gli altri, quelli bravi, che di lei non sapevano nulla. E io per questo sarei stato male, malissimo. Ogni giorno avrei convissuto con il senso di colpa e mi sarei sentito un incapace. Non avrei saputo scrivere di lei e mi sarei appropriato delle parole degli altri. Quasi sicuramente non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo e la sua sarebbe stata la storia di un'altra donna. Sono certo però, che l'avrei amata, ogni giorno, tutti i giorni, con il mio cuore anche se la penna sarebbe stata di un altro.

«È troppo tardi anche per i ricordi. Adesso non li amo più. Non so più se li ho mai amati. Me ne sono andata. Non ho più nella testa il profumo della sua pelle, negli occhi il colore dei suoi occhi. Non mi ricordo più la voce, se non a volte quel tono dolce, di sera, quand’era stanca. La sua risata non la sento più: né la risata, né le grida. È finita, non me ne ricordo più. Per questo è facile scrivere di lei adesso, a lungo, estesamente, è diventata scrittura corrente». (Marguerite Duras, “L’amante”)


Rimedi alternativi


Metti caso che tu mi incontrassi e mi volessi da subito. Sai, una di quelle cose che ti fanno perdere la testa improvvisamente, quelle cose che succedono sempre agli altri e mai a te. Però questa volta succede a te e non sai come comportarti. Vieni da me e mi parli di futuro, del tuo per il momento perché non puoi dirmi che vorresti che fosse il nostro, non mi conosci, non sai nemmeno pronunciare il mio cognome. Quindi ti trovi in una di quelle situazioni in cui saresti capace di scalare l'Everest e invece sei seduto su un montarozzo di rifiuti tossici a far finta di starci comodo e a lasciare che io mi convinca che anche tu sei la persona con cui voglio stare. Poi magari non lo faccio, magari piano piano diventi una sagoma senza contorno omologata a tutto il resto, magari avrei voluto che il primo giorno mi avessi chiesto di vivere insieme. Magari queste cose non succedono mai e sono soltanto invenzioni di persone che invece di vivere hanno scelto di scrivere. Forse è questo che ti spinge a scrivere quel mucchio di robaccia che accumuli a casa. Scrivi per non fare, per non essere coraggioso e poter far finta di non aver mai provato ad esserlo. Tanto finché stanno lì, le tue righe, nessuno le vedrà mai e se mai qualcuno dovesse trovarle puoi sempre dire che erano di un altro, che non lo sai, che non c'entri niente.
Tra il dire e il fare, tra lo scrivere e il fare, c'è di mezzo un montarozzo di rifiuti tossici
.

venerdì 9 ottobre 2015

Una tazza di latte


Gentile Mulino (non so bene a chi devo rivolgermi e spero che non ve la prendiate se faccio di tutta l'erba un fascio),
Un mese fa la mia ragazza mi ha lasciato lasciandomi il biglietto che le (Mulino) ho mandato come allegato.
Le (Mulino) scrivo perché vorrei essere risarcito. Io e Cecilia siamo stati insieme per 4 anni. Felici. Lei mi capiva. Poi ad un certo punto è cambiato qualcosa e io credo che sia stata colpa sua (Mulino). Mi sembra abbastanza chiaro da quello che scrive che la causa sono i suoi (Mulino) biscotti. Non credo di dover aggiungere altro.
Quindi, spero che lei (Mulino) capisca che è necessario un risarcimento immediato. Mi serve adesso. Sto male, piango, soffro e mangio gelato. Mi chiedevo, potrebbe (Mulino) mandarmi 100 pacchi di Pan di stelle, quelli di Natale?
Nell'attesta di una sua (Mulino) risposta,
la (Mulino) ringrazio per l'attenzione.
Cordiali Saluti,
Luigi.

"Senti, io ci provo. Provo a costringermi a capire come funziona quella palla che gira sopra la tua testa o almeno quella che credi di avere solo tu là sopra. Non te lo volevo dire, il mondo ce l'hanno tutti sulle spalle.
Però mi hai convinto, tutto questo non basta. Sai tutta quella storia su "siamo diversi, siamo tante macchie che prendono tonalità diverse a seconda delle tele? Ma se la tela è sempre bianca come fa una macchia ad essere diversa? Dici che è la forma che fa la differenza? Del contenuto, per una volta, freghiamocene. Per esempio, io nel pacco limited edition di Natale di Pan di stelle cerco sempre il biscotto tondo, cioè quello normale. Così dovrebbe essere no? Perché bisogna per forza cambiare le regole? I Pan di stelle sono sempre stati tondi. Non è che io a Natale divento albero, stella e campanella. Quindi, dicevo, mi hai convinto, tutto questo non basta ma posso almeno restare tonda? E poi, hai notato quanti punti di domanda sto usando per dire questa cosa?
È abbastanza chiaro che non ho le idee chiare. Ripeto le parole, i punti, le virgole e me la prendo con i biscotti più buoni che esistano sulla faccia della terra. Questo non te lo perdono. Cambia tutto, prenditi tutto, ma lasciami il mio banale, scontato, e sempre uguale, pacco di biscotti Pan di stelle tondi. Ci giro intorno e parlo di cose da mangiare per non parlare della mia incapacità. Fingo di essere un cerchio e in verità sono un quadrato. Fingo di amarti per come sei e in verità cambierei tutto, qualsiasi cosa.
Allora a questo punto mi arrendo. La palla che gira sopra la tua testa funziona come tutte le altre. Niente di più e niente di meno. È inutile che mi ostino a pensare che tu sia una macchia diversa.
È inutile.
Tanto so che tu, a Natale, frugherai nella busta e, dopo averci pensato a lungo, sceglierai il biscotto a forma di albero."