lunedì 19 ottobre 2015

Ho comprato: una maglietta, un maglione, una giacca e un cappello



[..] Anche quella ragazza che si destreggia sul palco in fondo alla strada non fa che distrarmi dal mio obiettivo. Avevo sentito parlare di questa nuova moda di motivare con libri motivatori persone che ricercano un motivo, insomma, apparte il gioco di parole, Guru improvvisati che scrivono libri autobiografici per convincere gli altri che "si può esser felici".
A quanto pare Ebe, questo è il nome della "musa" di questo pseudo seminario improvvisato e arrancato in questa piazza, è una tra le più seguite e venerate motivatrici in questo momento. Nel suo libro racconta la sua storia parlando in terza persona, anche questa sembra essere una nuova moda, esponendo ciò che l'ha portata ad essere la donna forte che oggi, pare, sia diventata.
(Ritornare Ebe, pag 54)
 una vita che lascia le schegge addosso. L'ha sempre pensato, ma adesso, ora che quelle schegge le sono entrate nella pelle, non sa come farle uscire fuori. Che poi, chi lo dice che bisogna liberarsene? Si sente quasi sollevata a questo pensiero, in qualche modo avrebbe fatto finta di non averle e se proprio qualcuno ci avesse fatto caso, avrebbe fatto finta di niente. Si sente parlare di rimedi, addirittura un curatore cinese dice di aver trovato un rimedio per eliminare tutte le tracce, per non farle tornare mai più. Continua a non capire il perché di questa necessità di eliminarle. Sono schegge di una vita che ha vissuto. C'è tanta di quella gente che ha il coraggio di andarsene in giro con le cravatte bicolore, capigliature a nido di uccello e foulard di naftalina. Eppure quel curatore con gli occhi a mandorla non ha trovato una cura alla banalità, anzi, a quanto pare dice proprio che non serve, che il grigio è normale, il viola livido no. Schegge indolore, non pungono, non prudono. Stanno li perché devono significare qualcosa, allora stanno lì. Si sentono storie di gente che ha provato a levarle e non è mai tornata indietro. Allora, chi glielo fa fare? Sembra addirittura fiera di averle. Sono schegge che sembrano medaglie, ogni ferita è un traguardo, ogni taglio una vittoria. Quasi come se quella del dolore fosse la partita più bella da giocare e come premio si ricevano proprio quei minuscoli simboli di battaglia. Dovreste vederla ora andare in giro con quelle sue cicatrici, bella orgogliosa. Sembra che il curatore abbia iniziato a cercare una cura per quell'altra malattia, quella delle cravatte bicolore, le capigliature a nido d'uccello e i foulard di naftalina. A quanto pare la normalità è diventata la scheggia. Chi l'avrebbe mai detto?". In effetti non è un argomento sbagliato da trattare, soprattutto se ad ascoltarti ci sono molte donne. Ma è davvero giusto convincere qualcuno ad essere fiero di mostrare le proprie cicatrici perché sono il risultato di un coraggioso atto di accettazione del dolore? E quelli che non lo accettano e fanno di tutto per eliminarne i segni, per non renderli visibili agli altri, dietro cravatte bicolore, sono davvero da ritenere così banali-normali e addirittura i nuovi malati? La verità è che non ho nessuna intenzione di chiederlo ad Ebe e poi, fondamentalmente, non mi interessa così tanto. Io a volte indosso una cravatta, altre volte scopro la ferita. Credo che ognuno sa quando è il momento di coprirsi e quando quello di spogliarsi.

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